Nazionalismo,
patriottismo e solidarietà
Il
1914 è l'anno in cui si sciolgono definitivamente tutti quei nodi
politici, militari, strategici che avevano imbrigliato e collassato
l'assetto bismarckiano europeo post 1878. Da Sarajevo parte una
revolverata che colpisce non solo l'erede al trono d'Austria ma tutta
l'Europa prima e il mondo poi. Il mondo sportivo e calcistico, per
ciò che ci importa, gioca in Italia – e non solo - un ruolo
davvero importante di identificazione nazionale: il calcio non è più
quell'esercizio fisico di nicchia che incuriosiva pochi passanti sul
finire dell'Ottocento, è ormai diventato un sport che muove
interessi – anche economici – e appassiona una buona fetta di
sportivi italiani. Inevitabile dunque che chi lo guida, chi lo anima
e chi lo segue lo utilizzi anche per fini propagandistici, e da quel
momento sarà una costante sino ai nostri giorni. Per comprendere
appieno ciò che accadde nel mondo calcistico a partire dall'estate
del 1914 occorre fare un passo indietro, e spiegare quale fosse la
posizione dell'Italia nello scacchiere europeo. Sostanzialmente
isolata, l'Italia nel 1878 aveva pessimi rapporti diplomatici con la
Francia da un lato e con l'Austria-Ungheria dall'altro: forti
tensioni irredentiste si erano scatenate l'indomani del termine dei
lavori del Congresso di Berlino che avevano portato agli inizi del
1880 a reazioni militari austriache sul confine.
Vista dall'Italia la situazione era difficile, senza alleati, con una
nazione giovane e piena di problemi interni, era necessario cercare
di sedersi ad un tavolo per potersi mettere in sicurezza.
Fu ancora
una volta Bismarck a coordinare e agevolare le trattative tra Italia
ed Austria-Ungheria, trattative che avrebbero portato, nel maggio
1882, alla stipula del Trattato della Triplice Alleanza. Il
sentimento antiaustriaco era vivo e forte in molti strati della
popolazione attiva culturalmente e tale ostilità negli anni
successivi avrebbe avuto modo di estrinsecarsi in parecchie occasioni
sino alla dichiarazione di guerra austroungarica alla Serbia, punto
di non ritorno verso quel conflitto che sarebbe passato alla storia
come il primo mondiale. Inutile qua raccontare tutte le vicende
politico-diplomatiche che portarono l'Italia prima a dichiararsi
neutrale e quindi a dichiarare guerra all'alleato austroungarico.
Un fatto è quanto scrisse il ministro degli Esteri italiano Di San
Giuliano agli ambasciatori il 3 agosto: tra le altre valutazioni e
considerazioni così si esprimeva sulla decisione di dichiararsi
neutrali nell'estate del 1914:
“(...)
In un Paese democratico come l'Italia non è possibile fare una
guerra, e ancor meno una guerra grossa e rischiosa, contro la volontà
e il risentimento della Nazione. Ora, salvo una piccolissima
minoranza, la Nazione si è subito rivelata unanime contro la
partecipazione ad una guerra originata da un atto di prepotenza
dell'Austria contro un piccolo popolo che essa vuole schiacciare
(...)”
Nulla
rileva qua la valutazione politica e di merito delle parole del
ministro, ma è interessante porre l'accento sul sentimento
“antiaustriaco”, sentimento che si manifesta ancor più
l'indomani dell'invasione del Belgio da parte delle truppe tedesche
agli inizi di settembre. Con l'inizio del campionato di calcio (4
ottobre) il movimento calcistico diventa sempre più protagonista,
schierandosi apertamente al fianco della Nazioni attaccate dalle
alleate italiane. Già in dicembre Milan e Casale organizzano una
amichevole il cui ricavato devolvono in beneficenza a favore dei
profughi del Belgio invaso. A questo sentimento che, come presto
vedremo, coinvolgerà pure la Nazionale, come bene ha messo in
evidenza Sergio Giuntini, contribuì e non poco la stampa sportiva
“formando
un'opinione pubblica favorevole all'intervento”
organizzando numerosi eventi benefici.
Uno di questi fu patrocinato da La
Gazzetta dello Sport con
l'A.S.S.I. per gli inizi del 1915, evento che prevedeva per la
Nazionale italiana due partite contro due selezioni di giocatori
sotto le armi di Francia e Belgio. Nella partita giocata il 1°
gennaio 1915 all'Arena di Milano la squadra italiana non adottò la
consueta maglia azzurra ma optò per una divisa bianca fregiata
dell'alabarda di Trieste, segno tangibile di quello che era il clima
e il sentimento di quei giorni, impregnati di nazionalismo ed
interventismo e bene sintetizzati nell'articolo de La
Gazzetta dello Sport
a commento dell'evento: “La
squadra franco-belga (…) ha sentito dalla voce del popolo di Milano
e di Torino (…) quale magnifica unità di aspirazioni nazionali
esista oggi nelle anime dei popoli latini”.
Come bene sintetizza Nicola Sbetti, in conclusione, in Italia si era
sviluppato un sistema sportivo che “aveva
consolidato i processi di sportivizzazione sviluppatisi, a loro
volta, in parallelo a quelli di costituzione della nazione e di
nazionalizzazione delle masse”.
Il
dopoguerra: dalle trincee alla società di massa
C'è
uno studio di Lauro Rossi particolarmente illuminante di quanto
accadde durante i tragici anni di guerra e di quale ruolo vi giocò
lo sport, il calcio in particolare. Leggendo quelle pagine ci
accorgiamo di come i campi di prigionia austroungarici fossero
sostanzialmente gli stessi passati poi sinistramente alla storia
utilizzati da Hitler poco meno di trent'anni dopo. Detto ciò, c'è
da rilevare come in quei campi lo sport venisse utilizzato, seppur in
condizioni disagiate e con cadenza ovviamente irregolare, come un
breve momento di svago concesso ai prigionieri per alleviare “quegli
stati di acuta depressione, di inconsolabile disperazione”.
A questa esperienza di forzata convivenza e – diciamo così – di
condivisione sportiva, se ne aggiunse un'altra, ugualmente
importante, messa in rilevo da Antonio Papa e Guido Panico. La
trincea – altro tragico simbolo di quella guerra – luogo di
condivisione di esperienze tra giovani di diversa estrazione sociale
provenienti da regioni differenti, con culture, tradizioni e modi di
pensare e di vivere difformi, diventò una sorta di “laboratorio di
incubazione” di quella società nuova, la società di massa, che
avrebbe aggregato le varie diversità contribuendo non poco alla
creazione di un'identità nazionale.
E di ciò il calcio trasse enormi benefici, non attraendo più –
come scrive Antonio Ghirelli - “minoranze
specializzate”
ma aprendosi definitivamente alle grandi masse di sportivi che,
terminata la guerra, avevano voglia sia di dimenticare gli orrori
vissuti al fronte ma anche di riversare tutte le energie accumulate
in qualcosa di tangibile, di identificabile.
Il calcio, con le sue potenzialità passionali, fu uno di questi
campi, ma non il solo. Rigoni Stern in molti suoi romanzi e racconti
meglio di altri spiega quale fosse la condizione soprattutto
psicologica dei reduci, che dopo aver vissuto anni – quelli della
gioventù – in trincea venivano catapultati nella quotidianità al
proprio paese di origine senza un lavoro, senza un orizzonte di
speranza che non fosse pensare giorno per giorno.
“Non
c'erano lavori per gli uomini; il paese era stato ricostruito, per
ultimo il municipio, e così, fin quando il terreno non gelò nel
profondo e venne la neve, la gente, sfidando la legge, andava a
recupero di bombe, cartucce, piombo, reticolati e di quant'altro si
potesse vendere alla Ditta Briata. Chi poteva andava all'estero. Il
sogno era l'America ma pochi avevano i soldi per pagarsi il viaggio
fin laggiù; c'era chi vendeva le proprietà per farlo. I più
vogliosi andavano in Francia come primo passo per l'America: molti
avevano fatto così trent'anni addietro.”
Il
calcio fu una delle tante valvole di sfogo, dove lecitamente si
canalizzò la rabbia e la frustrazione di interi strati della
popolazione. Di colpo le nuove generazioni vedono nel calcio una
sorta di motivo di rivincita, di affrancamento da una condizione di
disagio e povertà e tra turbolenze e scontri sociali sempre più
gravi, assistiamo all'avanzare non solo di un pubblico nuovo ma anche
di un prototipo di giocatore nuovo. Adolfo Baloncieri spiega bene
questo concetto: “Il tempo dei
pionieri era superato. (…) Una generazione impaziente si affacciava
imperiosamente alla ribalta, smaniosa di affermarsi. Uno spirito
nuovo animava quella gioventù: il desiderio di prorompere e dilagare
sui campi di giuoco, in una atmosfera di rinnovato entusiasmo”.
In questo nuovo e più complesso scenario, il potere politico dovette
iniziare a fare i conti con esigenze nuove che variavano dal consenso
al controllo sociale: lo sport venne visto come strumento
preferenziale per dare soluzione ad entrambi i problemi.
Calcio
e potere: dalla “Carta di Viareggio” al Mondiale del 1934
Con la metà degli anni'20 il Fascismo iniziò ad
interessarsi anche al mondo dello sport e del calcio, nell'idea di
modernizzarne le strutture esistenti. La stessa F.I.G.C. più volte
aveva lamentato lo scarso interesse dello Stato nei confronti dello
sport in generale e del calcio in particolare, ma qualcosa proprio
verso la metà del decennio iniziò a mutare: la progressiva
“fascistizzazione” delle strutture sociali e statali ad opera del
regime toccava anche il mondo dello sport che intanto si andava
saldando sempre più a quello dell'istruzione con la legge n. 2247
del 3 aprile 1926, legge che istituiva l'Opera Nazionale Balilla per
l'assistenza e l'educazione fisica e morale della gioventù. Con
detta legge e con i successivi R.D. Del 20 novembre 1927 e del 12
settembre 1929 il regime “metteva le mani” sull'insegnamento
dell'educazione fisica nelle scuole attraverso un sistema di
controllo nuovo rispetto alle esperienze passate poiché anche se
l'ONB agiva al di fuori della scuola, allo stesso tempo essa era
all'interno della scuola medesima poiché gli insegnanti di
ginnastica passavano direttamente alle sue dipendenze.
Lando Ferretti, gerarca fascista e presidente del
C.O.N.I. dal 1925 al 1928, spiega molto bene quale fu l'approccio del
Fascismo allo sport in un estratto dal fondamentale lavoro di Antonio
Ghirelli:
“Politico
– e solo politico! - Mussolini vide, anche nello sport, e apprezzò
il lato politico. Per essere più precisi: la sua funzione
politico-sociale. All'inizio lo sport indubbiamente era, ed è,
nemico della lotta di classe, affratellatore e livellatore di gente
proveniente dai più diversi ceti, tutta fusa da una passione comune
e tesa verso la stessa meta. Inoltre costituisce, coi suoi
spettacoli, il diversivo migliore per la gioventù, altrimenti
convogliata verso attività di partiti politici.”
Oltre a questo, lo sport serviva al regime per
raggiungere anche un altro importante scopo, quello cioè di
infondere negli italiani un marcato sentimento di orgoglio nazionale.
Per arrivare a ciò indispensabile fu la figura dell'atleta che
mietendo successi in campo internazionale da un lato aumentava il
senso di appartenenza delle masse e dall'altro ingigantiva il
prestigio internazionale di Mussolini e del regime stesso.
A tal
proposito interessante è riportare un estratto delle parole che
Mussolini pronuncia in occasione del raduno del 28 ottobre 1934 a
Roma di tutti gli atleti italiani:
“Voi,
atleti di tutta Italia, avete dei particolari doveri. Voi dovete
essere tenaci, cavallereschi, ardimentosi. ricordatevi che quando
combattete oltre i confini, ai vostri muscoli e soprattutto al vostro
spirito è affidato in quel momento l'onore e il prestigio sportivo
della Nazione. Dovete quindi mettere tutta la vostra energia, tutta
la vostra volontà, per raggiungere il primato in tutti i cimenti
della terra, del mare e del cielo.”
Momento
spartiacque fondamentale fu senz'altro l'emanazione nell'agosto del
1926 della cosiddetta “Carta di Viareggio”, la famosa riforma
voluta dal regime di tutto il calcio nazionale; troppo lungo qua
raccontare tutte le vicende prodromiche che portarono alla riforma,
già da alcuni anni una commissione di “saggi” stava lavorando
per una strutturale riforma del calcio e proprio nella primavera
del'26 statuì per il Regolamento arbitrale una bizzarra norma che
prevedeva la possibilità per le società di indicare un certo numero
di arbitri “non graditi”, i quali per tutta la stagione non
avrebbero arbitrato quelle squadre. Inutile dire che questa
statuizione non fu affatto gradita agli arbitri che risposero con un
durissimo comunicato nel quale lo spauracchio dello sciopero – e
quindi la paralisi del calcio – era molto più di un'eventualità.
A quel punto della questione venne investito direttamente il C.O.N.I.
- quindi il regime – che ordinò l'immediata cessazione dello
sciopero e nominò un triumvirato di saggi con il compito di
riformare radicalmente l'organizzazione calcistica italiana. Dopo
sole tre settimane veniva licenziata una riforma globale del gioco
del calcio in Italia, riforma che andava a modificare nella sostanza
alcuni punti strategici che avrebbero avuto un notevole impatto sia
nell'immediato e sia nel futuro.
Cambiava un po' tutto: veniva
riscritto lo statuto federale, mutavano gli organi di governo del
calcio e veniva introdotta una separazione fondamentale nello status
dei calciatori, suddividendoli in dilettanti e non
dilettanti.
Per quel che qui più ci interessa, c'è da rilevare l'aspetto più
importante che riguardava le cariche federali che smettevano di
essere elettive per passare ad essere nominate. Veniva istituito il
Direttorio Federale composto da 7 elementi tutti eletti direttamente
dal C.O.N.I. a capo del quale veniva nominato il gerarca fascista
bolognese Leandro Arpinati; a sua volta il Direttorio Federale
avrebbe nominato tutti gli organi dipendenti. Quasi tutti i più
autorevoli studiosi di storia calcistica fanno coincidere questo
momento con il momento in cui il regime si impossessa
del calcio italiano, per i motivi che abbiamo più su esposto. È un
rapporto di reciprocità, quello tra fascismo e calcio, nel quale
entrambi ottengono vantaggi. Con Arpinati si inizia anche in Italia a
pensare, progettare e costruire stadi polisportivi sì, ma con al
centro il gioco del calcio, il tutto per iniziativa pubblica,
segnando un momento di forte discontinuità con il passato: il
“Littoriale” di Bologna – inaugurato nel 1927, al quale
seguirono la completa ristrutturazione a Roma del “Nazionale”, la
costruzione a Pisa dell'Arena “Garibaldi”, a Trieste del
“Littorio” e a Palermo della “Favorita”, tutti per mano
pubblica.
Momento
successivo consequenziale per il regime per raggiungere lo scopo di
rinforzare il prestigio internazionale suo e quindi di Mussolini era
organizzare una grande manifestazione sportiva. Gli anni'30 erano gli
anni di massimo splendore del regime fascista: all'interno la
costruzione del regime totalitario poteva dirsi compiuta, con
l'appiattimento morale della società ai diktat del regime e
all'esterno l'Italia godeva ancora di un buon prestigio e soprattutto
era ancora percepita come una Nazione stabile, affidabile. Il destro
per organizzare una grande manifestazione venne offerto al Congresso
FIFA del maggio 1932, quando la delegazione italiana accetto “con
riserva” di organizzare l'edizione del 1934 della World Cup: Rimet
voleva che il paese ospitante fosse in grado di organizzare una
competizione migliore rispetto a quella del 1930, che si assumesse
tutti i rischi economici e che le partite si svolgessero in più
città. Inoltre per lui era imprescindibile la presenza delle tre
squadre sudamericane più forti. L'Italia rispendeva a tutti questi
criteri: disponeva, come abbiamo detto, di impianti nuovi e
funzionali, si assumeva l'alea economica ed aveva buoni rapporti con
le tre federazioni di Brasile, Uruguay e Argentina.
Così durante il
meeting della FIFA a Zurigo del 1932 la candidatura italiana divenne
effettiva. Marco Impiglia nel suo interessante saggio dedicato alla
Coppa del Mondo 1934 ci spiega bene cosa mosse l'Italia ad
organizzare l'evento, rifacendosi ad un carteggio del presidente
della FIGC Giorgio Vaccaro alla Presidenza del Consiglio del febbraio
1934. Se è vero che il
regime fascista abusò politicamente dell’evento – ed Impiglia
bene ne mostra i fatti – “parimenti
s’adoperò per organizzarlo bene”,
valutandone i numerosi aspetti, non solo sportivi e di propaganda
nazionale, ma anche turistici, quindi economici.
Tutto
doveva funzionare alla perfezione, e tutto funzionò perchè tutti i
gerarchi fascisti impegnati nello sport e tutto il corpo diplomatico
lavorarono e si impegnarono all'unisono per la buona riuscita del
torneo. Come rileva Ghirelli l'organizzazione fu curata nei minimi
dettagli, furono creati dalla FIGC sei uffici, ognuno dedicato ad un
singolo aspetto della manifestazione: amministrativo (diretto dal
rag. Bertoldi), tecnico (ing. Barassi), viaggi e alloggi (comm.
Ferretti), stampa e propaganda (dr. Zauli), ricevimenti ufficiali
(sig. Viola), congresso FIFA (conte Millo).
Sicuramente tra le iniziative di più impatto mediatico che
contribuirono al coinvolgimento della popolazione italiana fu
l'organizzazione di un concorso per cartelloni di propaganda
all'evento. Leggiamo direttamente del volume ufficiale pubblicato
dalla federazione che vennero presentati ben 158 lavori e tra questi
venne scelto il manifesto di Luigi Martinati, mentre altri tre
vennero scelti per la serie di francobolli emessi in occasione della
manifestazione e per la copertina del programma del torneo.
Non solo. Per la prima volta EIAR e Istituto Luce misero in campo un
apparato faraonico, coprendo l'intera manifestazione e garantendo
anche a chi abitava in luoghi remoti lontani dalle principali città
di seguire al cinema i riflessi filmati delle azioni più importanti
delle partite.
Insomma possiamo senz'altro affermare che il fascismo fece qualsiasi
sforzo per giungere al risultato prefissato che, come abbiamo più
volte sottolineato, era quello di accreditarsi all'opinione pubblica
internazionale come una forza seria di governo guidata dal carisma di
Mussolini, che un paio di giorni dopo la finalissima incontrava per
la prima volta Adolf Hitler.
Tutta
la stampa di regime – e non poteva essere altrimenti – sottolineò
il risultato amministrativo dell'evento. Una fra le tante la voce del
Guerin
Sportivo che
così rappresentò l'epopea del mondiale italiano:
“(...)
L'apoteosi di Roma ha chiuso nel modo più degno l'avvenimento senza
confronti. Tutto bene, letizia generale: il titolo è in nostre mani,
i conti tornano e c'è rimasto anzi un certo margine tanto per
dimostrare che non si era stati avventati nelle previsioni (…).
Lo stesso Vaccaro esterna il suo compiacimento nell'aver
evitato il deficit di bilancio nelle note introduttive del volume
ufficiale pubblicato per celebrare la vittoria azzurra:
“(...)
Ci siamo sforzati di non perdere mai di vista il fine massimo al
quale si tendeva, che era quello di dimostrare che lo sport fascista
spazia ad alta quota di idealità, per responsabilità di Dirigenti e
per maturità di folle sportive. E che tutto ciò promana da un unico
ispiratore: il DUCE.”
Lo
stesso Impiglia getta una luce importante su un aspetto altrettanto
decisivo, uscendo definitivamente da un percorso agiografico che ci
permette di comprendere come in quel Mondale tutte le componenti del
regime si mossero per arrivare al risultato finale: per ciò che
concerne il lato amministrativo ed organizzativo abbiamo detto, dal
lato sportivo Impiglia bene spiega quali furono gli “agganci
diplomatici” che permisero all'organizzazione italiana di contare
su alcuni arbitri controllandoli durante tutta la manifestazione: lo
svedese Eklind, lo svizzero Mercet e il belga Baert.
Come
più volte affermato, calcio e fascismo si unirono in un abbraccio
che portò benefici ad entrambi, ma che mutò definitivamente e per
sempre il calcio stesso. Ghirelli sostiene – e non senza ragioni –
che il calcio che uscì dai mutamenti degli anni'20 del Novecento era
un calcio che si sposava bene con il modo di essere del regime
fascista, rivoluzionario sì ma che “si
acconciava a quel caos strutturale che in termini economici si chiamò
corporativismo”.
E sappiamo bene quanto il calcio italiano – la società italiana? -
si crogioli ancora oggi nel pantano burocratico che tutto ammorba e
paralizza. Lo stesso giornalista napoletano nel suo Storia
del calcio in Italia
cita un passo di Carlo Doglio su un punto decisivo nella storia di
questo sport, spiegando come dopo la fascistizzazione del calcio
nessuna società calcistica avrebbe mai più potuto raccontare la
propria storia economica.
Effetti, dunque, ben visibili e tangibili anche ai nostri giorni.
“Quando
un gioco è importante per miliardi di persone, cessa di essere
semplicemente un gioco. Il calcio non è mai solo calcio: aiuta a
fare guerre e rivoluzioni, affascina mafiosi e dittatori.”
Ciò che scrive Kuper è, in sintesi, il destino di un
gioco che è diventato universale, che ha legato, lega e legherà
ancora le sue vicende con quelle più profonde ed importanti del XX
secolo e di quello in cui stiamo vivendo, alimentando speranze,
delusioni, rivolte e pacificazioni il tutto partendo sempre da lì,
da un pezzo di terra ricoperto di erba, con ventidue ragazzi che
corrono dietro ad un pallone.