Cento anni fa tantissimi
giovani di tutta Europa partivano per il fronte abbandonando la loro
casa e donando sogni, speranze e giovinezza ad una follia che devastò
per cinque interminabili anni il cuore del mondo.
Quando il 28 giugno 1914,
a Sarajevo, lo studente bosniaco Gavrilo Princip assassinò l'erede
al trono d'Austria Francesco Ferdinando, l'Europa viveva gli ultimi
attimi di un lungo periodo di pace e progresso, dovuto in massima
parte al complesso sistema di alleanze difensive che aveva
cristallizzato lo scacchiere europeo, acuendo però sempre più
diffidenze e malcontento che trovarono quindi una valvola di sfogo
nell'attentato di Sarajevo. Quel giorno, infatti, si innescò il
meccanismo perverso che avrebbe portato l'Europa prima, il mondo poi
nella più tragica e sanguinosa guerra che si fosse mai vista prima.
Pochi giorni dopo quella
tremenda giornata gli appassionati di football seguivano con
interesse l'ultimo atto del campionato 1913/14. Domenica 5 luglio
nella finale di andata, a Casale Monferrato, la locale squadra di
calcio batteva 7-1 la Lazio e la domenica successiva le due squadre
giocavano il match di ritorno, dopo che alla mattina furono ricevute
in Campidoglio dal sindaco di Roma, Principe Colonna. Anche quella
partita venne vinta dal Casale che conquistava così il suo primo –
ed unico – campionato italiano, lasciando la Lazio ancora una volta
con l'amaro in bocca, ad un passo dalla gloria come l'anno
precedente, quella volta sconfitta in finale dalle “bianche
casacche” della Pro Vercelli (7-0). In quegli anni la Lazio era
sicuramente la squadra più forte del centro sud: come detto riuscì
ad arrivare due volte alla finalissima contro le squadre del nord ed
anche nel campionato 1914/15, quello che non vide mai la fine a
seguito della mobilitazione generale, al momento della sospensione
era ad un passo dall'approdare alla finalissima. Mancava, ancora,
un'ultima partita nel girone, quella contro il Pisa ma la Lazio era
prima in classifica con due punti di vantaggio sul Roman e, proprio,
sul Pisa.
Tutto venne sospeso,
tutto rimandato al termine della guerra che si sperava veloce ma che
già si sospettava sarebbe stata lunga, ma non così tremendamente
lunga.
Come in precedenza detto,
se subito dopo l'attentato di Sarajevo tutte le diplomazie e le
cancellerie d'Europa entrarono in fibrillazione, ancora gli sportivi
italiani si godevano i loro svaghi, ma il calcio nostrano aveva
incominciato a “fare i conti” con la guerra già nell'estate,
quando il Torino di Vittorio Pozzo rientrando dalla tournée in
Sudamerica a bordo del piroscafo “Duca degli Abruzzi” una
mattina, al largo di Gibilterra, vennero svegliati dalle cannonate e
dalla perquisizione di un incrociatore inglese. Così Vittorio Pozzo
ricorda quei momenti:
“(...)
fummo svegliati da due cannonate e ci trovammo la via sbarrata da un
incrociatore inglese che s’era messo di traverso sulla nostra
rotta. Venne a bordo un picchetto armato, e per poco non pagai caro
lo scherzo di essermi messo a
parlare tedesco in presenza dell’ufficiale inglese che lo
comandava: mi avevano preso per
un riservista germanico e volevano portarmi via. All’arrivo a
Genova, uno degli amici che ci aspettavano sul molo agitava, nella
mano, una quantità di fogli verdi e gialli. Erano i richiami per
mobilitazione, od esercitazione. Ce n’era per tutti, ci volevano da
tutte le parti: 3° Alpini, 4°Bersaglieri, 5° Genio Minatori, 92°
Fanteria. Impallidimmo. Quella guerra, sulla
cui durata avevamo tanto scherzato, era lì, con le fauci aperte, a
ghermirci.”
Era la guerra, che stava
bussando alle porte del nostro Paese, anche se ci eravamo dichiarati
neutrali già da oltre un mese. E sarà lungo il filo sempre più
sottile della neutralità che l'Italia giocherà la sua “battaglia
diplomatica” finalizzata ad ottenere pacificamente – attraverso
l'interprswtazione dell'art. VII del Trattato della Triplice Alleanza
– quei territori che tre guerre d'Indipendenza non erano riuscite a
portare: Trentino e Trieste divennero in quei mesi da un lato le
bandiere di chi voleva la guerra e dall'altro l'impegno di chi
quella guerra cercava di evitarla o quanto meno di spostarla più in
là nel tempo.
Questa fotografia,
pubblicata da Lo Sport Illustrato,
ritrae un incontro di football giocato su un campo del Belgio durante
i primi mesi di invasione tedesca, nell'autunno del 1914. Il pubblico
è formato in massima parte da ufficiali e soldati tedeschi, così
come anche i giocatori sono soldati che si distraggono durante il
loro tempo libero. Lo sport – il calcio in particolare – venne
utilizzato dagli ufficiali per mantenere in esercizio i soldati e per
mantenere alto il loro spirito durante i lunghi mesi di attesa nelle
trincee. Come dimostrato dalla più recente storiografia, in special
modo dagli ottimi lavori di Giorgio Seccia e Lauro Rossi, in molti
campi di prigionia tedeschi la pratica sportiva venne non solo
autorizzata ma anzi incentivata. Ma il calcio non serviva soltanto
come strumento di distrazione o di mantenimento fisico. Noto ormai a
tutti ciò che accadde sul fronte nella notte di Natale del 1914,
quando dalle trincee opposte prima si alzarono canti natalizi e poi
venne deciso di far tacere almeno per un giorno le armi, sostituite
dalla disputa di una partita di calcio tra soldati nemici.
In Italia durante i mesi
di neutralità – quindi dall'agosto 1914 al maggio 1915 – il
“mondo del football” si schierò sempre più apertamente contro
l'Austria-Ungheria e a favore delle Terre irredente.
Numerosissime furono le partite organizzate dalle società di calcio
per raccogliere fondi da destinare alle popolazioni martoriate del
Belgio e di Trieste, una di queste merita senz'altro di essere
menzionata perché coinvolse direttamente la Nazionale, nelle prime
giornate del gennaio 1915, partita organizzata da La
Gazzetta dello Sport con il
patrocinio dell'A.S.S.I. All'Arena Civica di Milano il 1° gennaio la
nazionale italiana giocò contro una mista composta da giocatori
sotto le armi di Francia e Belgio, indossando una divisa bianca
fregiata dall'alabarda di Trieste.
Un
altro esempio è descritto da quest'altra fotografia scattata sempre
all'Arena Civica di Milano nell'aprile del 1915 e ritrae Fossati
capitano dell'Internazionale, avv. Mauro della Federazione ora
sottotenente, ing. Mauro vice-presidente della Federazione, avv.
Pedroni arbitro dell'incontro Internazionale-Milan, Franco Scarioni
de La Gazzetta dello Sport
ora sotto le armi col grado di tenente e il belga Van Hege capitano
del Milan. Ma qui, a differenza del tempo in cui venne scattata la
fotografia precedente, siamo già ad un passo dall'intervento
italiano. Il Patto di Londra, dopo estenuanti trattative, è stato
stipulato: la diplomazia italiana, il governo italiano sanno che
entro breve dovranno entrare in guerra a fianco di Russia, Francia e
Inghilterra, contro quell'Austria-Ungheria che era stata dal 1882
l'alleata più ingombrante nella Triplice Alleanza, ma anche l'antica
nemica dell'Unità nazionale.
In
Italia, così come in tutta Europa, per tutta la durata della guerra
moltissimi furono i calciatori che si arruolarono e tantissimi di
loro trovarono la morte al fronte, alcuni di essi molto famosi per
l'epoca. Si può dire che tutte le società dell'epoca abbiano pagato
un prezzo elevatissimo in vite umane. Per ricordarne doverosamente
soltanto alcuni, Giuseppe Caimi, medaglia d'oro al valor militare,
che morì nel 1917 sul Grappa; Virgilio Fossati, capitano
dell'Internazionale e della Nazionale, uno dei migliori giocatori del
periodo prebellico; Luigi Ferraris e James Spensley, entrambi del
Genoa, al primo verrà intitolato lo stadio di Genova, mentre il
secondo, oltre ad essere stato il primo portiere della squadra
genovese, ebbe anche il merito di introdurre il gioco del calcio
nella società del Genoa, nata nel 1893 come società di atletica e
cricket. La Lazio fu particolarmente colpita: perse infatti, tra gli
altri, Orazio Gaggiotti, Rodolfo De Mori, Alberto Canalini, Valerio
Mengarini.
Ormai
i tempi erano maturi: il 24 maggio 1915 l'Italia dichiarava guerra
all'Austria-Ungheria e di calcio se ne parlò e se ne giocò sempre
meno. Il campionato, come detto, venne sospeso e soltanto al termine
del conflitto il titolo di Campione d'Italia venne assegnato al
Genoa, non senza numerose polemiche. Ma ormai si era in un tempo
nuovo, diverso. Il calcio era cambiato, l'Italia era mutata e con
essa erano cambiati gli italiani, soprattutto i reduci, come
meravigliosamente e drammaticamente ha raccontato Rigoni Stern nel
commovente romanzo Le stagioni di Giacomo.
Il
mondo tentava di rialzarsi, una società nuova si rimetteva in
marcia, non necessariamente migliore.