martedì 31 luglio 2018

FOOTBALL SOTTO LE STELLE

L'estate è quella del 1925. Tra le stelle cadenti della notte di San Lorenzo il campo del Gruppo Sportivo Borsalino, ad Alessandria, organizza quella che parrebbe proprio essere la prima gara calcistica in notturna mai giocata in Italia. 
Gli organizzatori per domenica 9 agosto illuminano a giorno il campo e al termine del programma di atletica, alle 23 la squadra locale alessandrina del Borsalino sfida una compagine mista proveniente da Casale.
Alle 23 di stasera, con un'ora di ritardo su quella fissata si è disputato sul campo Borsalino, splendidamente illuminato a giorno, l'annunciato interessante match di calcio (…). All'appuntamento ha partecipato un pubblico numerosissimo. Predominava l'elemento femminile.”
Così La Stampa del 9 agosto.
La Gazzetta dello Sport del 10 agosto ci regala anche il nome dei marcatori: in vantaggio gli ospiti con una rete di Gabba nel primo tempo, gli alessandrini raggiungono il pareggio nella ripresa grazie alla rete messa a segno da Ponzano, fissando così il risultato sul definitivo 1-1.
Probabilmente questa è la prima partita di calcio in notturna giocata in Italia, seppur amichevole. Per assistere ad una gara ufficiale ocorrerà attendere qualche anno ancora, almeno gli inizi degli anni'30.


venerdì 27 luglio 2018

IL CALCIO TRA IDENTITA' NAZIONALE E POTERE POLITICO. Parte 2 (1890-1934)

Nazionalismo, patriottismo e solidarietà
Il 1914 è l'anno in cui si sciolgono definitivamente tutti quei nodi politici, militari, strategici che avevano imbrigliato e collassato l'assetto bismarckiano europeo post 1878. Da Sarajevo parte una revolverata che colpisce non solo l'erede al trono d'Austria ma tutta l'Europa prima e il mondo poi. Il mondo sportivo e calcistico, per ciò che ci importa, gioca in Italia – e non solo - un ruolo davvero importante di identificazione nazionale: il calcio non è più quell'esercizio fisico di nicchia che incuriosiva pochi passanti sul finire dell'Ottocento, è ormai diventato un sport che muove interessi – anche economici – e appassiona una buona fetta di sportivi italiani. Inevitabile dunque che chi lo guida, chi lo anima e chi lo segue lo utilizzi anche per fini propagandistici, e da quel momento sarà una costante sino ai nostri giorni. Per comprendere appieno ciò che accadde nel mondo calcistico a partire dall'estate del 1914 occorre fare un passo indietro, e spiegare quale fosse la posizione dell'Italia nello scacchiere europeo. Sostanzialmente isolata, l'Italia nel 1878 aveva pessimi rapporti diplomatici con la Francia da un lato e con l'Austria-Ungheria dall'altro: forti tensioni irredentiste si erano scatenate l'indomani del termine dei lavori del Congresso di Berlino che avevano portato agli inizi del 1880 a reazioni militari austriache sul confine1. Vista dall'Italia la situazione era difficile, senza alleati, con una nazione giovane e piena di problemi interni, era necessario cercare di sedersi ad un tavolo per potersi mettere in sicurezza. 
Fu ancora una volta Bismarck a coordinare e agevolare le trattative tra Italia ed Austria-Ungheria, trattative che avrebbero portato, nel maggio 1882, alla stipula del Trattato della Triplice Alleanza. Il sentimento antiaustriaco era vivo e forte in molti strati della popolazione attiva culturalmente e tale ostilità negli anni successivi avrebbe avuto modo di estrinsecarsi in parecchie occasioni sino alla dichiarazione di guerra austroungarica alla Serbia, punto di non ritorno verso quel conflitto che sarebbe passato alla storia come il primo mondiale. Inutile qua raccontare tutte le vicende politico-diplomatiche che portarono l'Italia prima a dichiararsi neutrale e quindi a dichiarare guerra all'alleato austroungarico2. Un fatto è quanto scrisse il ministro degli Esteri italiano Di San Giuliano agli ambasciatori il 3 agosto: tra le altre valutazioni e considerazioni così si esprimeva sulla decisione di dichiararsi neutrali nell'estate del 1914:
(...) In un Paese democratico come l'Italia non è possibile fare una guerra, e ancor meno una guerra grossa e rischiosa, contro la volontà e il risentimento della Nazione. Ora, salvo una piccolissima minoranza, la Nazione si è subito rivelata unanime contro la partecipazione ad una guerra originata da un atto di prepotenza dell'Austria contro un piccolo popolo che essa vuole schiacciare (...)”3
Nulla rileva qua la valutazione politica e di merito delle parole del ministro, ma è interessante porre l'accento sul sentimento “antiaustriaco”, sentimento che si manifesta ancor più l'indomani dell'invasione del Belgio da parte delle truppe tedesche agli inizi di settembre. Con l'inizio del campionato di calcio (4 ottobre) il movimento calcistico diventa sempre più protagonista, schierandosi apertamente al fianco della Nazioni attaccate dalle alleate italiane. Già in dicembre Milan e Casale organizzano una amichevole il cui ricavato devolvono in beneficenza a favore dei profughi del Belgio invaso. A questo sentimento che, come presto vedremo, coinvolgerà pure la Nazionale, come bene ha messo in evidenza Sergio Giuntini, contribuì e non poco la stampa sportiva “formando un'opinione pubblica favorevole all'intervento” organizzando numerosi eventi benefici4

Uno di questi fu patrocinato da La Gazzetta dello Sport con l'A.S.S.I. per gli inizi del 1915, evento che prevedeva per la Nazionale italiana due partite contro due selezioni di giocatori sotto le armi di Francia e Belgio. Nella partita giocata il 1° gennaio 1915 all'Arena di Milano la squadra italiana non adottò la consueta maglia azzurra ma optò per una divisa bianca fregiata dell'alabarda di Trieste, segno tangibile di quello che era il clima e il sentimento di quei giorni, impregnati di nazionalismo ed interventismo e bene sintetizzati nell'articolo de La Gazzetta dello Sport a commento dell'evento: “La squadra franco-belga (…) ha sentito dalla voce del popolo di Milano e di Torino (…) quale magnifica unità di aspirazioni nazionali esista oggi nelle anime dei popoli latini”5. Come bene sintetizza Nicola Sbetti, in conclusione, in Italia si era sviluppato un sistema sportivo che “aveva consolidato i processi di sportivizzazione sviluppatisi, a loro volta, in parallelo a quelli di costituzione della nazione e di nazionalizzazione delle masse”6.
Il dopoguerra: dalle trincee alla società di massa
C'è uno studio di Lauro Rossi particolarmente illuminante di quanto accadde durante i tragici anni di guerra e di quale ruolo vi giocò lo sport, il calcio in particolare. Leggendo quelle pagine ci accorgiamo di come i campi di prigionia austroungarici fossero sostanzialmente gli stessi passati poi sinistramente alla storia utilizzati da Hitler poco meno di trent'anni dopo. Detto ciò, c'è da rilevare come in quei campi lo sport venisse utilizzato, seppur in condizioni disagiate e con cadenza ovviamente irregolare, come un breve momento di svago concesso ai prigionieri per alleviare “quegli stati di acuta depressione, di inconsolabile disperazione”7. A questa esperienza di forzata convivenza e – diciamo così – di condivisione sportiva, se ne aggiunse un'altra, ugualmente importante, messa in rilevo da Antonio Papa e Guido Panico. La trincea – altro tragico simbolo di quella guerra – luogo di condivisione di esperienze tra giovani di diversa estrazione sociale provenienti da regioni differenti, con culture, tradizioni e modi di pensare e di vivere difformi, diventò una sorta di “laboratorio di incubazione” di quella società nuova, la società di massa, che avrebbe aggregato le varie diversità contribuendo non poco alla creazione di un'identità nazionale8. E di ciò il calcio trasse enormi benefici, non attraendo più – come scrive Antonio Ghirelli - “minoranze specializzate” ma aprendosi definitivamente alle grandi masse di sportivi che, terminata la guerra, avevano voglia sia di dimenticare gli orrori vissuti al fronte ma anche di riversare tutte le energie accumulate in qualcosa di tangibile, di identificabile9. Il calcio, con le sue potenzialità passionali, fu uno di questi campi, ma non il solo. Rigoni Stern in molti suoi romanzi e racconti meglio di altri spiega quale fosse la condizione soprattutto psicologica dei reduci, che dopo aver vissuto anni – quelli della gioventù – in trincea venivano catapultati nella quotidianità al proprio paese di origine senza un lavoro, senza un orizzonte di speranza che non fosse pensare giorno per giorno.
Non c'erano lavori per gli uomini; il paese era stato ricostruito, per ultimo il municipio, e così, fin quando il terreno non gelò nel profondo e venne la neve, la gente, sfidando la legge, andava a recupero di bombe, cartucce, piombo, reticolati e di quant'altro si potesse vendere alla Ditta Briata. Chi poteva andava all'estero. Il sogno era l'America ma pochi avevano i soldi per pagarsi il viaggio fin laggiù; c'era chi vendeva le proprietà per farlo. I più vogliosi andavano in Francia come primo passo per l'America: molti avevano fatto così trent'anni addietro.”10
Il calcio fu una delle tante valvole di sfogo, dove lecitamente si canalizzò la rabbia e la frustrazione di interi strati della popolazione. Di colpo le nuove generazioni vedono nel calcio una sorta di motivo di rivincita, di affrancamento da una condizione di disagio e povertà e tra turbolenze e scontri sociali sempre più gravi, assistiamo all'avanzare non solo di un pubblico nuovo ma anche di un prototipo di giocatore nuovo. Adolfo Baloncieri spiega bene questo concetto: “Il tempo dei pionieri era superato. (…) Una generazione impaziente si affacciava imperiosamente alla ribalta, smaniosa di affermarsi. Uno spirito nuovo animava quella gioventù: il desiderio di prorompere e dilagare sui campi di giuoco, in una atmosfera di rinnovato entusiasmo”11. In questo nuovo e più complesso scenario, il potere politico dovette iniziare a fare i conti con esigenze nuove che variavano dal consenso al controllo sociale: lo sport venne visto come strumento preferenziale per dare soluzione ad entrambi i problemi.
Calcio e potere: dalla “Carta di Viareggio” al Mondiale del 1934
Con la metà degli anni'20 il Fascismo iniziò ad interessarsi anche al mondo dello sport e del calcio, nell'idea di modernizzarne le strutture esistenti. La stessa F.I.G.C. più volte aveva lamentato lo scarso interesse dello Stato nei confronti dello sport in generale e del calcio in particolare, ma qualcosa proprio verso la metà del decennio iniziò a mutare: la progressiva “fascistizzazione” delle strutture sociali e statali ad opera del regime toccava anche il mondo dello sport che intanto si andava saldando sempre più a quello dell'istruzione con la legge n. 2247 del 3 aprile 1926, legge che istituiva l'Opera Nazionale Balilla per l'assistenza e l'educazione fisica e morale della gioventù. Con detta legge e con i successivi R.D. Del 20 novembre 1927 e del 12 settembre 1929 il regime “metteva le mani” sull'insegnamento dell'educazione fisica nelle scuole attraverso un sistema di controllo nuovo rispetto alle esperienze passate poiché anche se l'ONB agiva al di fuori della scuola, allo stesso tempo essa era all'interno della scuola medesima poiché gli insegnanti di ginnastica passavano direttamente alle sue dipendenze.
Lando Ferretti, gerarca fascista e presidente del C.O.N.I. dal 1925 al 1928, spiega molto bene quale fu l'approccio del Fascismo allo sport in un estratto dal fondamentale lavoro di Antonio Ghirelli:
Politico – e solo politico! - Mussolini vide, anche nello sport, e apprezzò il lato politico. Per essere più precisi: la sua funzione politico-sociale. All'inizio lo sport indubbiamente era, ed è, nemico della lotta di classe, affratellatore e livellatore di gente proveniente dai più diversi ceti, tutta fusa da una passione comune e tesa verso la stessa meta. Inoltre costituisce, coi suoi spettacoli, il diversivo migliore per la gioventù, altrimenti convogliata verso attività di partiti politici.”12
Oltre a questo, lo sport serviva al regime per raggiungere anche un altro importante scopo, quello cioè di infondere negli italiani un marcato sentimento di orgoglio nazionale. Per arrivare a ciò indispensabile fu la figura dell'atleta che mietendo successi in campo internazionale da un lato aumentava il senso di appartenenza delle masse e dall'altro ingigantiva il prestigio internazionale di Mussolini e del regime stesso. 
A tal proposito interessante è riportare un estratto delle parole che Mussolini pronuncia in occasione del raduno del 28 ottobre 1934 a Roma di tutti gli atleti italiani:
Voi, atleti di tutta Italia, avete dei particolari doveri. Voi dovete essere tenaci, cavallereschi, ardimentosi. ricordatevi che quando combattete oltre i confini, ai vostri muscoli e soprattutto al vostro spirito è affidato in quel momento l'onore e il prestigio sportivo della Nazione. Dovete quindi mettere tutta la vostra energia, tutta la vostra volontà, per raggiungere il primato in tutti i cimenti della terra, del mare e del cielo.”13
Momento spartiacque fondamentale fu senz'altro l'emanazione nell'agosto del 1926 della cosiddetta “Carta di Viareggio”, la famosa riforma voluta dal regime di tutto il calcio nazionale; troppo lungo qua raccontare tutte le vicende prodromiche che portarono alla riforma14, già da alcuni anni una commissione di “saggi” stava lavorando per una strutturale riforma del calcio e proprio nella primavera del'26 statuì per il Regolamento arbitrale una bizzarra norma che prevedeva la possibilità per le società di indicare un certo numero di arbitri “non graditi”, i quali per tutta la stagione non avrebbero arbitrato quelle squadre. Inutile dire che questa statuizione non fu affatto gradita agli arbitri che risposero con un durissimo comunicato nel quale lo spauracchio dello sciopero – e quindi la paralisi del calcio – era molto più di un'eventualità. A quel punto della questione venne investito direttamente il C.O.N.I. - quindi il regime – che ordinò l'immediata cessazione dello sciopero e nominò un triumvirato di saggi con il compito di riformare radicalmente l'organizzazione calcistica italiana. Dopo sole tre settimane veniva licenziata una riforma globale del gioco del calcio in Italia, riforma che andava a modificare nella sostanza alcuni punti strategici che avrebbero avuto un notevole impatto sia nell'immediato e sia nel futuro. 
Cambiava un po' tutto: veniva riscritto lo statuto federale, mutavano gli organi di governo del calcio e veniva introdotta una separazione fondamentale nello status dei calciatori, suddividendoli in dilettanti e non dilettanti. Per quel che qui più ci interessa, c'è da rilevare l'aspetto più importante che riguardava le cariche federali che smettevano di essere elettive per passare ad essere nominate. Veniva istituito il Direttorio Federale composto da 7 elementi tutti eletti direttamente dal C.O.N.I. a capo del quale veniva nominato il gerarca fascista bolognese Leandro Arpinati; a sua volta il Direttorio Federale avrebbe nominato tutti gli organi dipendenti. Quasi tutti i più autorevoli studiosi di storia calcistica fanno coincidere questo momento con il momento in cui il regime si impossessa del calcio italiano, per i motivi che abbiamo più su esposto. È un rapporto di reciprocità, quello tra fascismo e calcio, nel quale entrambi ottengono vantaggi. Con Arpinati si inizia anche in Italia a pensare, progettare e costruire stadi polisportivi sì, ma con al centro il gioco del calcio, il tutto per iniziativa pubblica, segnando un momento di forte discontinuità con il passato: il “Littoriale” di Bologna – inaugurato nel 1927, al quale seguirono la completa ristrutturazione a Roma del “Nazionale”, la costruzione a Pisa dell'Arena “Garibaldi”, a Trieste del “Littorio” e a Palermo della “Favorita”, tutti per mano pubblica15.
Momento successivo consequenziale per il regime per raggiungere lo scopo di rinforzare il prestigio internazionale suo e quindi di Mussolini era organizzare una grande manifestazione sportiva. Gli anni'30 erano gli anni di massimo splendore del regime fascista: all'interno la costruzione del regime totalitario poteva dirsi compiuta, con l'appiattimento morale della società ai diktat del regime e all'esterno l'Italia godeva ancora di un buon prestigio e soprattutto era ancora percepita come una Nazione stabile, affidabile. Il destro per organizzare una grande manifestazione venne offerto al Congresso FIFA del maggio 1932, quando la delegazione italiana accetto “con riserva” di organizzare l'edizione del 1934 della World Cup: Rimet voleva che il paese ospitante fosse in grado di organizzare una competizione migliore rispetto a quella del 1930, che si assumesse tutti i rischi economici e che le partite si svolgessero in più città. Inoltre per lui era imprescindibile la presenza delle tre squadre sudamericane più forti. L'Italia rispendeva a tutti questi criteri: disponeva, come abbiamo detto, di impianti nuovi e funzionali, si assumeva l'alea economica ed aveva buoni rapporti con le tre federazioni di Brasile, Uruguay e Argentina. 
Così durante il meeting della FIFA a Zurigo del 1932 la candidatura italiana divenne effettiva. Marco Impiglia nel suo interessante saggio dedicato alla Coppa del Mondo 1934 ci spiega bene cosa mosse l'Italia ad organizzare l'evento, rifacendosi ad un carteggio del presidente della FIGC Giorgio Vaccaro alla Presidenza del Consiglio del febbraio 1934. Se è vero che il regime fascista abusò politicamente dell’evento – ed Impiglia bene ne mostra i fatti – “parimenti s’adoperò per organizzarlo bene”, valutandone i numerosi aspetti, non solo sportivi e di propaganda nazionale, ma anche turistici, quindi economici16.
Tutto doveva funzionare alla perfezione, e tutto funzionò perchè tutti i gerarchi fascisti impegnati nello sport e tutto il corpo diplomatico lavorarono e si impegnarono all'unisono per la buona riuscita del torneo. Come rileva Ghirelli l'organizzazione fu curata nei minimi dettagli, furono creati dalla FIGC sei uffici, ognuno dedicato ad un singolo aspetto della manifestazione: amministrativo (diretto dal rag. Bertoldi), tecnico (ing. Barassi), viaggi e alloggi (comm. Ferretti), stampa e propaganda (dr. Zauli), ricevimenti ufficiali (sig. Viola), congresso FIFA (conte Millo)17. Sicuramente tra le iniziative di più impatto mediatico che contribuirono al coinvolgimento della popolazione italiana fu l'organizzazione di un concorso per cartelloni di propaganda all'evento. Leggiamo direttamente del volume ufficiale pubblicato dalla federazione che vennero presentati ben 158 lavori e tra questi venne scelto il manifesto di Luigi Martinati, mentre altri tre vennero scelti per la serie di francobolli emessi in occasione della manifestazione e per la copertina del programma del torneo18. Non solo. Per la prima volta EIAR e Istituto Luce misero in campo un apparato faraonico, coprendo l'intera manifestazione e garantendo anche a chi abitava in luoghi remoti lontani dalle principali città di seguire al cinema i riflessi filmati delle azioni più importanti delle partite19. Insomma possiamo senz'altro affermare che il fascismo fece qualsiasi sforzo per giungere al risultato prefissato che, come abbiamo più volte sottolineato, era quello di accreditarsi all'opinione pubblica internazionale come una forza seria di governo guidata dal carisma di Mussolini, che un paio di giorni dopo la finalissima incontrava per la prima volta Adolf Hitler. 
Tutta la stampa di regime – e non poteva essere altrimenti – sottolineò il risultato amministrativo dell'evento. Una fra le tante la voce del Guerin Sportivo che così rappresentò l'epopea del mondiale italiano:
(...) L'apoteosi di Roma ha chiuso nel modo più degno l'avvenimento senza confronti. Tutto bene, letizia generale: il titolo è in nostre mani, i conti tornano e c'è rimasto anzi un certo margine tanto per dimostrare che non si era stati avventati nelle previsioni (…).20
Lo stesso Vaccaro esterna il suo compiacimento nell'aver evitato il deficit di bilancio nelle note introduttive del volume ufficiale pubblicato per celebrare la vittoria azzurra:
(...) Ci siamo sforzati di non perdere mai di vista il fine massimo al quale si tendeva, che era quello di dimostrare che lo sport fascista spazia ad alta quota di idealità, per responsabilità di Dirigenti e per maturità di folle sportive. E che tutto ciò promana da un unico ispiratore: il DUCE.”21
Lo stesso Impiglia getta una luce importante su un aspetto altrettanto decisivo, uscendo definitivamente da un percorso agiografico che ci permette di comprendere come in quel Mondale tutte le componenti del regime si mossero per arrivare al risultato finale: per ciò che concerne il lato amministrativo ed organizzativo abbiamo detto, dal lato sportivo Impiglia bene spiega quali furono gli “agganci diplomatici” che permisero all'organizzazione italiana di contare su alcuni arbitri controllandoli durante tutta la manifestazione: lo svedese Eklind, lo svizzero Mercet e il belga Baert22.
Come più volte affermato, calcio e fascismo si unirono in un abbraccio che portò benefici ad entrambi, ma che mutò definitivamente e per sempre il calcio stesso. Ghirelli sostiene – e non senza ragioni – che il calcio che uscì dai mutamenti degli anni'20 del Novecento era un calcio che si sposava bene con il modo di essere del regime fascista, rivoluzionario sì ma che “si acconciava a quel caos strutturale che in termini economici si chiamò corporativismo”. E sappiamo bene quanto il calcio italiano – la società italiana? - si crogioli ancora oggi nel pantano burocratico che tutto ammorba e paralizza. Lo stesso giornalista napoletano nel suo Storia del calcio in Italia cita un passo di Carlo Doglio su un punto decisivo nella storia di questo sport, spiegando come dopo la fascistizzazione del calcio nessuna società calcistica avrebbe mai più potuto raccontare la propria storia economica23. Effetti, dunque, ben visibili e tangibili anche ai nostri giorni.
Quando un gioco è importante per miliardi di persone, cessa di essere semplicemente un gioco. Il calcio non è mai solo calcio: aiuta a fare guerre e rivoluzioni, affascina mafiosi e dittatori.”24
Ciò che scrive Kuper è, in sintesi, il destino di un gioco che è diventato universale, che ha legato, lega e legherà ancora le sue vicende con quelle più profonde ed importanti del XX secolo e di quello in cui stiamo vivendo, alimentando speranze, delusioni, rivolte e pacificazioni il tutto partendo sempre da lì, da un pezzo di terra ricoperto di erba, con ventidue ragazzi che corrono dietro ad un pallone.




1 Luigi, Salvatorelli, La Triplice Alleanza – Storia diplomatica 1877-1912,ISPI, Milano, 1939
2 Per approfondire i motivi e le interpretazioni legate all'art. VII del Trattato della Triplice Alleanza cfr. Alessandro, Bassi, 1915. Dal football alle trincee, Bradipolibri Editore, Ivrea, 2015
3 La lettera venne pubblicata da Salandra e ripresa da Luigi, Albertini, Vent'anni di vita politica, Vol.III, Zanichelli, Bologna, 1951
4 Sergio, Giuntini, Lo sport e la grande guerra. Forze armate e movimento sportivo in Italia di fronte al primo conflitto mondiale, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, Roma, 2000
5 Cfr. La Gazzetta dello Sport del 4 gennaio 1915
6 Nicola, Sbetti, Lo Sport Illustrato e la Grande Guerra (1913-1915) sta in Lo sport alla Grande Guerra, Quaderni della SISS, n.4 Serie Speciale, 2015
7 Lauro, Rossi, Lo Sport nei campi di prigionia durante la Grande Guerra sta in Lo sport alla Grande Guerra, Quaderni della SISS, n.4 Serie Speciale, 2015
8 Antonio, Papa, Guido Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Il Mulino, Bologna, 2002
9 Antonio, Ghirelli, Storia del calcio in Italia, Einaudi, Torino, 1967
10 Mario, Rigoni Stern, Le stagioni di Giacomo, Einaudi, Torino, 1995
11 Le parole di Baloncieri sono riportate in Carlo, Chiesa, La grande storia del calcio italiano, supplemento a Guerin Sportivo
12 Antonio, Ghirelli, Op. cit.
13 Cfr. La Stampa del 29 ottobre 1934
14 Per approfondimenti cfr. www.storiedifootballperduto.blogspot.it la sezione dedicata alla Carta di Viareggio
15 Antonio, Papa, Guido, Panico, Op. Cit.
16 Marco, Impiglia, Fifa World Cup 1934: Mussolini trucco’ il gioco?,
17 Antonio, Ghirelli, Op. Cit.
18 Bruno, Zauli, Coppa del mondo – Cronistoria del II campionato mondiale di calcio, F.I.G.C., Roma, 1936
19 Marco, Impiglia, Op. Cit.
20 Cfr. Guerin Sportivo n.25 del 13 giugno 1934
21 Bruno, Zauli,Op. Cit.
22 Marco, Impiglia, Op. Cit.
23 Antonio, Ghirelli, Op. Cit.
24 Simon, Kuper, Calcio e potere, ISBN, 2008

mercoledì 25 luglio 2018

IL CALCIO TRA IDENTITA' NAZIONALE E POTERE POLITICO (1890-1934)

Premessa
Lo sport moderno, quello per intenderci che nasce in Inghilterra nella seconda metà del'700, è stato osservato da numerosissime angolazioni, studiato minuziosamente nelle sue più svariate sfaccettature. In particolare l'evento sportivo in quanto catalizzatore di pulsioni, gioie, speranze e delusioni è stato analizzato in rapporto alla produzione di tutta una serie di rituali che hanno fornito – e tuttora forniscono – un'identità comune alle comunità che in esso si riconoscono.
Il calcio, più e meglio di qualsiasi altro sport in Italia, è stato strumento e motivo di divisione ed aggregazione identitaria tra le sempre più numerose folle di appassionati. Da subito il calcio ha diviso gli appassionati per il profondo radicamento territoriale delle squadre che si sono legate in maniera molto forte con la città e il paese che rappresentavano, portando quindi al sorgere di alcune forme di “tifo” e di schermaglie sempre più violente tra le fazioni rivali.
Allo stesso tempo, però, il calcio è stato “usato” per creare un'identità nazionale per un popolo che Nazione non era ancora. Già durante i mesi di neutralità italiana immediatamente successivi allo scoppio della Grande Guerra la Nazionale è stata strumento di unità solidale ed irredentista, usata nella campagna anti-austriaca per mobilitare le masse degli sportivi all'intervento contro l'antico dominatore.
Con il primo dopoguerra, complice la drammatica eredità lasciata da durissimi anni di guerra, la scena politica è mutata radicalmente: preso il potere, Mussolini con il suo regime dittatoriale ed ideologico ha capito che lo sport, il calcio meglio di tutti, poteva e doveva essere sfruttato come mezzo di propaganda. La “fascistizzazione” dello Stato passa pertanto anche dallo sport, prima con la creazione dell'Opera Nazionale Balilla (sport di base), quindi con la cosiddetta “Carta di Viareggio” (strutture calcistiche di ogni livello) sino all'apoteosi dell'identificazione della “grandezza” del regime nella Nazionale vincitrice del Mondiale del 1934.
Uno stralcio del presente scritto è stato pubblicato nel volume #2 Identity della rivista Uno-Due (www.uno-due.it).
Unità d'Italia e “leisure time”
Quando nel nostro Paese si giocano le prime partite di football delle quali abbiamo testimonianza documentata la stagione risorgimentale, culminata con la proclamazione del Regno d'Italia (1861), è terminata da poco meno di trentanni. Nello specifico, il periodo compreso tra gli anni'60 e la seconda metà degli anni'80 del XIX secolo è caratterizzato soprattutto dalla ricerca, da parte dei governi, di dotare il neonato Stato italiano di stabilità economica, politica, amministrativa, finanziaria e militare. Per poter raggiungere questi obiettivi l'Italia dell'epoca si tenne lontana dalle varie questioni internazionali sin dopo il Congresso di Berlino (1878): Visconti-Venosta, responsabile della politica estera italiana sin dal 1869 affermava infatti che scopo della politica estera post 1870 dovesse essere quella di “affrettare il momento in cui finalmente si riuscisse a far parlare poco di sé”1. Considerato il grave stato delle condizioni sanitarie medie in cui versava l'Italia post unitaria bene sintetizzate da Antonio Papa e Guido Panico, con la salita al potere della Sinistra (1876) si andò sempre più intensificando l'opera governativa volta al miglioramento della salute degli italiani2. Un po' ovunque nascevano società ginnastiche e con il 1878 la legge n.4442 del 7 luglio introduceva l'insegnamento della ginnastica nella scuola italiana, a conclusione di un processo decisionale che aveva preso le mosse già ai tempi del Regno di Sardegna: si vedeva, infatti, di buon occhio l'insegnamento della ginnastica che, con la sua ferrea disciplina, era considerata particolarmente adatta a formare chi avrebbe dovuto guidare le sorti del Paese. Il passo è decisivo e la scuola – come sottolinea Giacomo Zanibelli – con l'insegnamento della ginnastica diventava il tramite “per formare una coscienza nazionale nelle menti delle giovani generazioni”3. Ancor più esplicito è Giorgio Seccia quando spiega che in Italia il modello che venne recepito in un primo momento fu quello di una educazione fisica diretta ai fini militari, poiché lo scopo principale era quello di sviluppare nei giovani tutta una serie di caratteristiche morali oltreché fisiche che li avrebbero dovuti forgiare per l'età adulta: obbedienza, coraggio, lealtà, resilienza, leadership e correttezza4.
 
Negli ultimi venti anni del XIX secolo le città in Italia conoscono un enorme crescita; cambiano le abitudini lavorative e di conseguenza anche i costumi e gli stili di vita mutano, seguendo le nuove opportunità. Nasce un fenomeno sociale che caratterizzerà e condizionerà l'uomo contemporaneo nel suo futuro: il tempo libero. I ritmi lavorativi non sono più scanditi dai tempi biologici della terra e delle stagioni come accade in campagna, bensì dai cicli produttivi delle fabbriche: il lavoro viene strutturato – anche attraverso le prime lotte e le prime rivendicazioni degli operai – in turni, e gli uomini sperimentano nuovi modi di riempire il tempo libero. Contemporaneamente i nuovi abitanti delle città sono anche funzionari, piccoli imprenditori e professionisti, il ceto medio, insomma, che ha tempo libero e denaro sufficiente da spendere assistendo a spettacoli ed eventi sportivi. È in questo clima che lo sport in generale diventa prodotto da usufruire, guardare e discutere non solo – si badi bene – individualmente bensì collettivamente, condividendo emozioni e aspettative e pertanto consolidando una certa forma di identità prima sportiva e quindi nazionale. Se, come abbiamo visto, l'educazione fisica e un rinvigorito riguardo per il benessere fisico hanno contribuito ad un interesse via via maggiore verso lo sport, i giornali sempre in quegli anni hanno svolto un fondamentale lavoro di volano alla pratica sportiva e all'identificazione dello spettatore con i primi campioni e le prime squadre, raccontando l'evento sportivo e divulgando la conoscenza dello sport attraverso un sempre più affinato utilizzo di un lessico specializzato. Lo sport, pertanto, da quel momento viene utilizzato dagli appartenenti a determinati gruppi per sostenere la propria identità, esaltare un campione in quanto “uno di noi” ovvero demonizzandone un altro perchè “uno degli altri”. A tal proposito Nicola Sbetti rileva che “questo tipo di identificazione può rivelarsi particolarmente efficace a livello nazionale e anche per questa ragione, dalla fine del XIX secolo ad oggi, le élite dominanti non hanno esitato ad adottare lo sport nei processi di nation building e di rafforzamento dell'identità nazionale”5.
Il football dei pionieri: identità e “tifo”
Il calcio era sport nuovo, giovane. Fascinoso. Da un lato era uno strumento che permetteva ai suoi seguaci di esteriorizzare le pulsioni consentendo agli appartenenti ad ogni ceto sociale di identificarsi in una squadra, di credere in una causa, in una bandiera. Dall'altro era la risposta alla richiesta di novità e di modernità dei giovani aristocratici dell'epoca: non a caso il calcio in Italia si sviluppò e si strutturò prima a Torino e Genova soprattutto grazie all'opera dei giovani rampolli sabaudi nella città piemontese e grazie ai diplomatici e commercianti inglesi a Genova. Ma è solo l'inizio: da quel primo momento il calcio piano piano contagia tutti gli strati sociali, dai più elevati ai più bassi, proliferando in tutte le regioni. A proposito di ciò, appare interessante qua appena accennare al fatto che il calcio arrivò e si sviluppò anche laddove la Federazione del calcio non arrivò se non successivamente. Caso piuttosto emblematico è quello della Sardegna. Sull'isola la Federazione organizzò i suoi primi tornei soltanto nel primo dopoguerra ma già sul finire del XIX secolo il calcio si prese a giocare, grazie ai marinai inglesi e agli studenti. Il calcio in Sardegna anche senza la Federazione riuscì ad imporsi formando una classe di dirigenti, di calciatori e anche di pubblico, conquistando sempre più interesse6.
Da subito questo sport ha permesso, forse meglio di qualsiasi altro, ai suoi spettatori di identificarsi in qualcosa che li riunisse sotto una sola bandiera. Letta così non sorprende la storia di questo sport vista sotto la lente del comportamento degli spettatori. Analizzando partita dopo partita attraverso le cronache dell'epoca, via via sempre più puntuali e ricche di dettagli, vediamo che così come muta ed evolve il gioco nello stesso modo cambia il comportamento di chi assiste e si interessa alle partite. L'inizio è per pochi intimi. Il calcio in Italia sul finire del XIX secolo viene seguito davvero da pochissime persone, il pubblico è un tutt'uno formato da sparuti curiosi e dai dirigenti delle squadre stesse. Le cronache dell'epoca – quando ci sono – ci raccontano di un pubblico composto da poche decine di persone ma, ed è elemento che merita senz'altro di essere sottolineato, caratterizzato da una buona presenza femminile. La cosa non deve meravigliare. Come bene spiegano Papa e Panico fino a quando il calcio rimase un fenomeno di élite, un divertimento della nobiltà e dei ceti più abbienti la presenza femminile ai bordi del campo fu una costante, una peculiarità propria del gioco del football7. Tanti sono gli esempi che il giornalismo ci racconta, anzi: nel racconto delle prime gare calcistiche i giornali davano molto risalto alla narrazione di tutto ciò che stava attorno al gioco, in special modo veniva raccontato di chi componeva il pubblico e di come il pubblico percepiva il gioco8.

Tutto ciò però muta non appena il football smette di essere gioco di nicchia per diventare un gioco – sebbene non ancora di massa – di tendenza, che incuriosisce un numero sempre maggiore di persone. Man mano che il pubblico aumenta diminuisce la presenza femminile; da evento festoso, di intrattenimento la partita di calcio si trasforma ed aumentano i casi di frizione e di intemperanze tra il pubblico, che va organizzandosi in maniera differente rispetto a prima. Il calcio, dunque, accende gli animi, unisce un gruppo di persone sotto un'unica bandiera e divide il pubblico in base all'appartenenza. Si assistono ai primi episodi di intemperanza, di violenza. E sono sempre più frequenti. Da un lato infatti assistiamo alle prime manifestazioni violente già nella seconda metà del primo decennio del Novecento, per poi farsi sempre più frequenti mano a mano che le fila dei seguaci delle varie squadre si ingrossano sempre più. E' in quella prima fase una manifestazione campanilistica diretta prima verso l'arbitro e poi verso la squadra avversaria, caratterizzata da un'identità stretta con la città della propria squadra. Con gli anni'20, successivamente, assistiamo ad una metamorfosi del fenomeno, certificato – se così vogliamo dire – da un articolo a firma di Giovanni Dovara apparso sulle colonne de Il Calcio sul finire del 1923 dove si cerca di spiegare il nuovo aspetto con il quale si manifesta la passione sportiva: il tifo.
Non è fortunatamente la terribile malattia infettiva, di cui vogliamo parlare, ma, come ognun comprende, la malattia sportiva, onde, più o meno, sono infetti, in questa stagione, gli appassionati del Giuoco del Calcio. Fenomeno di passione acuita a tal punto da rivestire e da assumere in certi casi ed in certe persone, i fenomeni più patologici! (…) Malattia il cui bacillo penetra insidioso ovunque, nelle persone d'ambo i sessi, e turba e sconvolge i pensieri di severi scienziati, di illustri professoroni, di timorose madri casalinghe e di spose amorose senza distinzione di fedi politiche e di religione, onde, magari, il comunista fegatoso si trova, una volta tanto almeno, disposto a discutere e ad accordarsi con il più arrabbiato ed intransigente fascista.”9
Ovviamente non c'è identità stretta tra tifo e violenza, tra passione e aggressività, perlomeno non nell'immediato. Certo è che con gli anni'20 e '30 assistiamo ad un numero sempre crescente di incidenti e di manifestazioni violente che hanno come matrice comune quella del tifo per una o l'altra squadra, identificando nell'altro il nemico da combattere dentro e fuori dal campo. Complice di questa escalation violenta fu anche il sempre più crescente numero di persone che iniziarono a seguire anche in trasferta la propria squadra del cuore, trasferte che erano mutate profondamente rispetto alle prime scampagnate d'inizio secolo, quando seguire la propria squadra del cuore significava essenzialmente vivere una domenica “fuori porta”. Con gli anni'20 l'aspetto “bucolico” della trasferta si restringe sempre più, sovrastato da quello più parossistico del tifo. E non manca, ne va di conseguenza, un salto di qualità in negativo del fenomeno, come testimonia la sparatoria che il 5 luglio 1925 alla stazione di Porta Nuova a Torino vide protagonisti i tifosi di Genoa e Bologna in occasione del terzo spareggio per l'assegnazione del titolo di campione d'Italia. Parallelamente assistiamo anche ad una spaccatura all'interno di quelle città che presentavano più di una società di calcio, più esattamente il tifo viene eterodiretto da ragioni che riguardano più aspetti socio-urbani rispetto a quelle semplici di simpatia verso una o l'altra società. Essendosi modificato il pubblico calcistico d'inizio secolo con l'ingrossamento delle proprie fila, con l'ingresso di sempre più ampi strati della popolazione, con gli anni'30 l'identità con una squadra coincide sempre più spesso con una rappresentazione plastica del proprio ceto sociale: così come a Roma la Lazio era espressione dell'alta borghesia, la Roma – che giocava al Testaccio – era la squadra della borgata. Ma di esempi ce ne sono molti e stanno alla base delle rivalità stracittadine che ancora oggi infiammano i campionati. Il tifo per una determinata squadra identifica uno strato sociale, un ambiente cittadino e culturale, dividendo quella stessa città in una o più fazioni.
Il concetto di “Nazionale”: dalla rappresentativa alla nazionale
Se il tifo divide gli appassionati a seconda della propria squadra di club preferita, è altrettanto vero che riesce ad unire un intero popolo attorno alla Nazionale di appartenenza, anche se questo vincolo si è andato via via facendo più sciolto negli ultimi anni e valido sempre più soltanto in occasione delle grandi manifestazioni internazionali, quali Mondiali ed Europei.
Sin dalle sue origini più remote il football italiano ha sentito il bisogno di rappresentare il proprio movimento con una squadra che potesse in modo tangibile certificare la propria esistenza misurandosi con esperienze analoghe d'oltre confine. Come tutti sappiamo la Federazione del calcio italiana nasce nel 1898 e in quell'anno organizza il suo primo campionato di calcio: le squadre affiliate sono poche, quasi tutte di stanza a Torino e Genova e quasi tutte composte in larga parte da giocatori stranieri, svizzeri e inglesi in particolare a seconda di dove i rapporti commerciali fossero più stretti. Le élites di quelle città danno sponda a commercianti e marinai stranieri creando così quel primo nucleo di interesse verso il gioco del football che si estrinseca con la creazione della prime squadre italiane di football. A Torino il commerciante Bosio nel 1887 crea il Football and Cricket Club, nel 1889 i giovani rampolli di casa Savoia e Ferrero di Ventimiglia creano la squadra dei Nobili e due anni più tardi questi stessi protagonisti decidono di fondersi insieme in un'unica squadra, l'Internazionale di Torino, mentre a Genova aristocratici, commercianti e professionisti si riuniscono attorno al consolato inglese per dar vita ad un club cittadino che offra loro gli stessi svaghi presenti già da diversi anni in madrepatria: il Genoa Cricket and Athletic Club. 
Bisogna tenere quindi a mente questa cornice nella quale si muovono i primi pionieri, un ambiente fortemente influenzato da voglia di novità, di futuro e di scambi culturali con il resto d'Europa, per capire su quali basi nel 1899 venne organizzato il primo incontro internazionale di calcio di una rappresentativa italiana, incontro che si svolse al Velodromo Umberto I di Torino. Ciò che quella squadra rappresentava – o voleva rappresentare - era il meglio del movimento calcistico italiano dell'epoca, senza distinzioni di nazionalità. Il criterio di selezione adottato era “residenziale”, cioè facevano parte di quella selezione i migliori calciatori che giocavano al momento in Italia: “Ier l'altro, al Velodromo Umberto I, davanti ad un pubblico discretamente numeroso, venne disputato il Gran Match fra una squadra di svizzeri e una di italiani composta dei migliori giucatori di Torino, Genova e Milano10.
Per arrivare al concetto di Nazionale quale rappresentativa del meglio del movimento italiano formata pertanto dai migliori giocatori italiani occorre attendere una decina di anni, occorre attendere quindi che il football in Italia esca dalla piccola nicchia degli esordi e diventi un fenomeno di tendenza, con un proprio pubblico e regolamenti un po' più strutturati. In questi dieci anni alcune squadre nate nell'Ottocento scompaiono, mentre nascono e crescono squadre formate da primi appassionati italiani, si pensi su tutte a Juventus e Pro Vercelli. In più il mondo calcistico fa propri alcuni concetti mutuati dal mondo della ginnastica, laddove le squadre di calcio erano assolutamente autarchiche e si arriva così nel 1910 alla prima rappresentativa completamente italiana, quando presidente federale da un anno è Luigi Bosisio più incline di altri a dare un impronta nazionalistica al movimento calcistico.
Viene quindi nominata una commissione che ha il compito di selezionare il meglio tra i calciatori italiani: nel giro di quattro mesi e dopo due incontri di selezione tra due squadre miste, “probabili” contro “possibili” il 15 maggio 1910 la Nazionale italiana gioca la sua prima gara. 
È una Nazionale dal forte connotato milanese e completamente priva dei giocatori vercellesi squalificati per le note vicende relative allo spareggio contro l'Internazionale di pochi giorni precedente. Da rilevare, peraltro, come ancora il concetto di “nazionale” sia piuttosto relativo: vero che sono scomparsi gli stranieri, ma la selezione ha riguardato soltanto poche squadre e comunque soltanto del nord: ancora ignorato del tutto è il calcio giocato non solo nel centro-sud ma anche nel nord-est della penisola. Il fatto è che le scelte furono il frutto di pesi e contrappesi dovuti alle pressioni delle società più influenti, ma nonostante ciò il debutto fu alquanto positivo – complice anche la scelta dell'avversario, non certamente invincibile – e pochi giorni dopo l'Italia, ancora di bianco vestita, andò a Budapest dove perse sonoramente davanti ad oltre 15.000 spettatori contro l'Ungheria.11. Va peraltro sottolineato che ancora l'opinione pubblica non percepisce questa squadra come un qualcosa che rappresenti non solo il movimento calcistico ma ancor più un'identità nazionale nel contesto internazionale. E non cambia neanche dopo la sfortunata e ben poco brillante esperienza alla Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Qualcosa pare cambiare in coincidenza dell'incontro programmato con il Belgio nel maggio 1913. Complice le due sconfitte con Austria e Francia seguenti alla disfatta olimpica, la Commissione selezionatrice decide di cambiare metodologie di selezione. O meglio, riesce a resistere alle pressioni esterne dei club più influenti e così facendo sviluppa una nuova idea di selezione, facendo un salto di qualità fondamentale sia sul piano tecnico, sia – per quel che qua ci interessa – sul piano dell'identità nazionale: decide infatti di affidarsi ad un “blocco” di giocatori provenienti da una sola società e ad esso affidare il gioco della squadra. Siamo nel 1913, in piena epoca d'oro delle Bianche Casacche vercellesi e quella Nazionale venne composta da ben 9 giocatori della Pro Vercelli, oltre al milanista De Vecchi e a Fresia dell'Andrea Doria. Come detto la scelta si rivelò vincente da tutti i punti di vista: a livello tecnico la squadra era rodata, sapeva giocare d'assieme perché abituata a farlo e il risultato fu una più che lusinghiera vittoria per 1-0; ma lo fu anche a livello emotivo, mediatico perché a quella partita parteciparono in massa i tifosi vercellesi creando un raccordo identitario tra squadra locale e rappresentativa del calcio nazionale.

(Continua -1)

1 Federico, Chabod, Storia della politica estera italiana 1870-1896, Laterza, Bari, 1951
2 Antonio, Papa, Guido Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Il Mulino, Bologna, 2002
3 Giacomo, Zanibelli, La scuola al fronte: l'educazione fisica come strumento di “vocazione” patriottica. Dalle sonnacchiose aule dell'italietta alla trincea. Il caso senese, sta in Lo sport alla Grande Guerra, Quaderni della SISS, n.4 Serie Speciale, 2015
4 Giorgio, Seccia, Il calcio in guerra, Gaspari Editore, 2011
5 Nicola, Sbetti, Le identità europee nello sport, Altre Modernità, Università degli Studi di Milano, 2015
6 Alessandro, Bassi, Il football dei pionieri. Storia del campionato di calcio in Italia dalle origini alla I Guerra Mondiale, Bradipolibri Editore, Ivrea, 2012
7 Antonio, Papa, Guido Panico, Op. cit.
8 Giusto a titolo esemplificativo, si leggano gli articoli di stampa seguenti: Il Caffaro del 8 gennaio 1898; La Stampa del 29 aprile 1901; La Stampa Sportiva del 13 aprile 1902; Corriere della Sera del 13 febbraio 1905
9 Cfr. Il Calcio del 22 dicembre 1923
10 Cfr. La Stampa del 2 maggio 1899. Incontro disputato a Torino il 30 aprile 1899 tra una rappresentativa italiana ed una svizzera, con la vittoria di quest'ultima per 2-0. La squadra italiana era composta da: Beaton (Torino), De Galleani (Genova), Dobbie (Torino, capitano), Bosio (Torino), Spensley (Genova), Pasteur (Genova), Leaver (Genova), Weber (Torino), Kilpin (Milano), Savage (Torino), Agar (Genova)
11 Alessandro, Bassi, Op. cit.