venerdì 27 luglio 2018

IL CALCIO TRA IDENTITA' NAZIONALE E POTERE POLITICO. Parte 2 (1890-1934)

Nazionalismo, patriottismo e solidarietà
Il 1914 è l'anno in cui si sciolgono definitivamente tutti quei nodi politici, militari, strategici che avevano imbrigliato e collassato l'assetto bismarckiano europeo post 1878. Da Sarajevo parte una revolverata che colpisce non solo l'erede al trono d'Austria ma tutta l'Europa prima e il mondo poi. Il mondo sportivo e calcistico, per ciò che ci importa, gioca in Italia – e non solo - un ruolo davvero importante di identificazione nazionale: il calcio non è più quell'esercizio fisico di nicchia che incuriosiva pochi passanti sul finire dell'Ottocento, è ormai diventato un sport che muove interessi – anche economici – e appassiona una buona fetta di sportivi italiani. Inevitabile dunque che chi lo guida, chi lo anima e chi lo segue lo utilizzi anche per fini propagandistici, e da quel momento sarà una costante sino ai nostri giorni. Per comprendere appieno ciò che accadde nel mondo calcistico a partire dall'estate del 1914 occorre fare un passo indietro, e spiegare quale fosse la posizione dell'Italia nello scacchiere europeo. Sostanzialmente isolata, l'Italia nel 1878 aveva pessimi rapporti diplomatici con la Francia da un lato e con l'Austria-Ungheria dall'altro: forti tensioni irredentiste si erano scatenate l'indomani del termine dei lavori del Congresso di Berlino che avevano portato agli inizi del 1880 a reazioni militari austriache sul confine1. Vista dall'Italia la situazione era difficile, senza alleati, con una nazione giovane e piena di problemi interni, era necessario cercare di sedersi ad un tavolo per potersi mettere in sicurezza. 
Fu ancora una volta Bismarck a coordinare e agevolare le trattative tra Italia ed Austria-Ungheria, trattative che avrebbero portato, nel maggio 1882, alla stipula del Trattato della Triplice Alleanza. Il sentimento antiaustriaco era vivo e forte in molti strati della popolazione attiva culturalmente e tale ostilità negli anni successivi avrebbe avuto modo di estrinsecarsi in parecchie occasioni sino alla dichiarazione di guerra austroungarica alla Serbia, punto di non ritorno verso quel conflitto che sarebbe passato alla storia come il primo mondiale. Inutile qua raccontare tutte le vicende politico-diplomatiche che portarono l'Italia prima a dichiararsi neutrale e quindi a dichiarare guerra all'alleato austroungarico2. Un fatto è quanto scrisse il ministro degli Esteri italiano Di San Giuliano agli ambasciatori il 3 agosto: tra le altre valutazioni e considerazioni così si esprimeva sulla decisione di dichiararsi neutrali nell'estate del 1914:
(...) In un Paese democratico come l'Italia non è possibile fare una guerra, e ancor meno una guerra grossa e rischiosa, contro la volontà e il risentimento della Nazione. Ora, salvo una piccolissima minoranza, la Nazione si è subito rivelata unanime contro la partecipazione ad una guerra originata da un atto di prepotenza dell'Austria contro un piccolo popolo che essa vuole schiacciare (...)”3
Nulla rileva qua la valutazione politica e di merito delle parole del ministro, ma è interessante porre l'accento sul sentimento “antiaustriaco”, sentimento che si manifesta ancor più l'indomani dell'invasione del Belgio da parte delle truppe tedesche agli inizi di settembre. Con l'inizio del campionato di calcio (4 ottobre) il movimento calcistico diventa sempre più protagonista, schierandosi apertamente al fianco della Nazioni attaccate dalle alleate italiane. Già in dicembre Milan e Casale organizzano una amichevole il cui ricavato devolvono in beneficenza a favore dei profughi del Belgio invaso. A questo sentimento che, come presto vedremo, coinvolgerà pure la Nazionale, come bene ha messo in evidenza Sergio Giuntini, contribuì e non poco la stampa sportiva “formando un'opinione pubblica favorevole all'intervento” organizzando numerosi eventi benefici4

Uno di questi fu patrocinato da La Gazzetta dello Sport con l'A.S.S.I. per gli inizi del 1915, evento che prevedeva per la Nazionale italiana due partite contro due selezioni di giocatori sotto le armi di Francia e Belgio. Nella partita giocata il 1° gennaio 1915 all'Arena di Milano la squadra italiana non adottò la consueta maglia azzurra ma optò per una divisa bianca fregiata dell'alabarda di Trieste, segno tangibile di quello che era il clima e il sentimento di quei giorni, impregnati di nazionalismo ed interventismo e bene sintetizzati nell'articolo de La Gazzetta dello Sport a commento dell'evento: “La squadra franco-belga (…) ha sentito dalla voce del popolo di Milano e di Torino (…) quale magnifica unità di aspirazioni nazionali esista oggi nelle anime dei popoli latini”5. Come bene sintetizza Nicola Sbetti, in conclusione, in Italia si era sviluppato un sistema sportivo che “aveva consolidato i processi di sportivizzazione sviluppatisi, a loro volta, in parallelo a quelli di costituzione della nazione e di nazionalizzazione delle masse”6.
Il dopoguerra: dalle trincee alla società di massa
C'è uno studio di Lauro Rossi particolarmente illuminante di quanto accadde durante i tragici anni di guerra e di quale ruolo vi giocò lo sport, il calcio in particolare. Leggendo quelle pagine ci accorgiamo di come i campi di prigionia austroungarici fossero sostanzialmente gli stessi passati poi sinistramente alla storia utilizzati da Hitler poco meno di trent'anni dopo. Detto ciò, c'è da rilevare come in quei campi lo sport venisse utilizzato, seppur in condizioni disagiate e con cadenza ovviamente irregolare, come un breve momento di svago concesso ai prigionieri per alleviare “quegli stati di acuta depressione, di inconsolabile disperazione”7. A questa esperienza di forzata convivenza e – diciamo così – di condivisione sportiva, se ne aggiunse un'altra, ugualmente importante, messa in rilevo da Antonio Papa e Guido Panico. La trincea – altro tragico simbolo di quella guerra – luogo di condivisione di esperienze tra giovani di diversa estrazione sociale provenienti da regioni differenti, con culture, tradizioni e modi di pensare e di vivere difformi, diventò una sorta di “laboratorio di incubazione” di quella società nuova, la società di massa, che avrebbe aggregato le varie diversità contribuendo non poco alla creazione di un'identità nazionale8. E di ciò il calcio trasse enormi benefici, non attraendo più – come scrive Antonio Ghirelli - “minoranze specializzate” ma aprendosi definitivamente alle grandi masse di sportivi che, terminata la guerra, avevano voglia sia di dimenticare gli orrori vissuti al fronte ma anche di riversare tutte le energie accumulate in qualcosa di tangibile, di identificabile9. Il calcio, con le sue potenzialità passionali, fu uno di questi campi, ma non il solo. Rigoni Stern in molti suoi romanzi e racconti meglio di altri spiega quale fosse la condizione soprattutto psicologica dei reduci, che dopo aver vissuto anni – quelli della gioventù – in trincea venivano catapultati nella quotidianità al proprio paese di origine senza un lavoro, senza un orizzonte di speranza che non fosse pensare giorno per giorno.
Non c'erano lavori per gli uomini; il paese era stato ricostruito, per ultimo il municipio, e così, fin quando il terreno non gelò nel profondo e venne la neve, la gente, sfidando la legge, andava a recupero di bombe, cartucce, piombo, reticolati e di quant'altro si potesse vendere alla Ditta Briata. Chi poteva andava all'estero. Il sogno era l'America ma pochi avevano i soldi per pagarsi il viaggio fin laggiù; c'era chi vendeva le proprietà per farlo. I più vogliosi andavano in Francia come primo passo per l'America: molti avevano fatto così trent'anni addietro.”10
Il calcio fu una delle tante valvole di sfogo, dove lecitamente si canalizzò la rabbia e la frustrazione di interi strati della popolazione. Di colpo le nuove generazioni vedono nel calcio una sorta di motivo di rivincita, di affrancamento da una condizione di disagio e povertà e tra turbolenze e scontri sociali sempre più gravi, assistiamo all'avanzare non solo di un pubblico nuovo ma anche di un prototipo di giocatore nuovo. Adolfo Baloncieri spiega bene questo concetto: “Il tempo dei pionieri era superato. (…) Una generazione impaziente si affacciava imperiosamente alla ribalta, smaniosa di affermarsi. Uno spirito nuovo animava quella gioventù: il desiderio di prorompere e dilagare sui campi di giuoco, in una atmosfera di rinnovato entusiasmo”11. In questo nuovo e più complesso scenario, il potere politico dovette iniziare a fare i conti con esigenze nuove che variavano dal consenso al controllo sociale: lo sport venne visto come strumento preferenziale per dare soluzione ad entrambi i problemi.
Calcio e potere: dalla “Carta di Viareggio” al Mondiale del 1934
Con la metà degli anni'20 il Fascismo iniziò ad interessarsi anche al mondo dello sport e del calcio, nell'idea di modernizzarne le strutture esistenti. La stessa F.I.G.C. più volte aveva lamentato lo scarso interesse dello Stato nei confronti dello sport in generale e del calcio in particolare, ma qualcosa proprio verso la metà del decennio iniziò a mutare: la progressiva “fascistizzazione” delle strutture sociali e statali ad opera del regime toccava anche il mondo dello sport che intanto si andava saldando sempre più a quello dell'istruzione con la legge n. 2247 del 3 aprile 1926, legge che istituiva l'Opera Nazionale Balilla per l'assistenza e l'educazione fisica e morale della gioventù. Con detta legge e con i successivi R.D. Del 20 novembre 1927 e del 12 settembre 1929 il regime “metteva le mani” sull'insegnamento dell'educazione fisica nelle scuole attraverso un sistema di controllo nuovo rispetto alle esperienze passate poiché anche se l'ONB agiva al di fuori della scuola, allo stesso tempo essa era all'interno della scuola medesima poiché gli insegnanti di ginnastica passavano direttamente alle sue dipendenze.
Lando Ferretti, gerarca fascista e presidente del C.O.N.I. dal 1925 al 1928, spiega molto bene quale fu l'approccio del Fascismo allo sport in un estratto dal fondamentale lavoro di Antonio Ghirelli:
Politico – e solo politico! - Mussolini vide, anche nello sport, e apprezzò il lato politico. Per essere più precisi: la sua funzione politico-sociale. All'inizio lo sport indubbiamente era, ed è, nemico della lotta di classe, affratellatore e livellatore di gente proveniente dai più diversi ceti, tutta fusa da una passione comune e tesa verso la stessa meta. Inoltre costituisce, coi suoi spettacoli, il diversivo migliore per la gioventù, altrimenti convogliata verso attività di partiti politici.”12
Oltre a questo, lo sport serviva al regime per raggiungere anche un altro importante scopo, quello cioè di infondere negli italiani un marcato sentimento di orgoglio nazionale. Per arrivare a ciò indispensabile fu la figura dell'atleta che mietendo successi in campo internazionale da un lato aumentava il senso di appartenenza delle masse e dall'altro ingigantiva il prestigio internazionale di Mussolini e del regime stesso. 
A tal proposito interessante è riportare un estratto delle parole che Mussolini pronuncia in occasione del raduno del 28 ottobre 1934 a Roma di tutti gli atleti italiani:
Voi, atleti di tutta Italia, avete dei particolari doveri. Voi dovete essere tenaci, cavallereschi, ardimentosi. ricordatevi che quando combattete oltre i confini, ai vostri muscoli e soprattutto al vostro spirito è affidato in quel momento l'onore e il prestigio sportivo della Nazione. Dovete quindi mettere tutta la vostra energia, tutta la vostra volontà, per raggiungere il primato in tutti i cimenti della terra, del mare e del cielo.”13
Momento spartiacque fondamentale fu senz'altro l'emanazione nell'agosto del 1926 della cosiddetta “Carta di Viareggio”, la famosa riforma voluta dal regime di tutto il calcio nazionale; troppo lungo qua raccontare tutte le vicende prodromiche che portarono alla riforma14, già da alcuni anni una commissione di “saggi” stava lavorando per una strutturale riforma del calcio e proprio nella primavera del'26 statuì per il Regolamento arbitrale una bizzarra norma che prevedeva la possibilità per le società di indicare un certo numero di arbitri “non graditi”, i quali per tutta la stagione non avrebbero arbitrato quelle squadre. Inutile dire che questa statuizione non fu affatto gradita agli arbitri che risposero con un durissimo comunicato nel quale lo spauracchio dello sciopero – e quindi la paralisi del calcio – era molto più di un'eventualità. A quel punto della questione venne investito direttamente il C.O.N.I. - quindi il regime – che ordinò l'immediata cessazione dello sciopero e nominò un triumvirato di saggi con il compito di riformare radicalmente l'organizzazione calcistica italiana. Dopo sole tre settimane veniva licenziata una riforma globale del gioco del calcio in Italia, riforma che andava a modificare nella sostanza alcuni punti strategici che avrebbero avuto un notevole impatto sia nell'immediato e sia nel futuro. 
Cambiava un po' tutto: veniva riscritto lo statuto federale, mutavano gli organi di governo del calcio e veniva introdotta una separazione fondamentale nello status dei calciatori, suddividendoli in dilettanti e non dilettanti. Per quel che qui più ci interessa, c'è da rilevare l'aspetto più importante che riguardava le cariche federali che smettevano di essere elettive per passare ad essere nominate. Veniva istituito il Direttorio Federale composto da 7 elementi tutti eletti direttamente dal C.O.N.I. a capo del quale veniva nominato il gerarca fascista bolognese Leandro Arpinati; a sua volta il Direttorio Federale avrebbe nominato tutti gli organi dipendenti. Quasi tutti i più autorevoli studiosi di storia calcistica fanno coincidere questo momento con il momento in cui il regime si impossessa del calcio italiano, per i motivi che abbiamo più su esposto. È un rapporto di reciprocità, quello tra fascismo e calcio, nel quale entrambi ottengono vantaggi. Con Arpinati si inizia anche in Italia a pensare, progettare e costruire stadi polisportivi sì, ma con al centro il gioco del calcio, il tutto per iniziativa pubblica, segnando un momento di forte discontinuità con il passato: il “Littoriale” di Bologna – inaugurato nel 1927, al quale seguirono la completa ristrutturazione a Roma del “Nazionale”, la costruzione a Pisa dell'Arena “Garibaldi”, a Trieste del “Littorio” e a Palermo della “Favorita”, tutti per mano pubblica15.
Momento successivo consequenziale per il regime per raggiungere lo scopo di rinforzare il prestigio internazionale suo e quindi di Mussolini era organizzare una grande manifestazione sportiva. Gli anni'30 erano gli anni di massimo splendore del regime fascista: all'interno la costruzione del regime totalitario poteva dirsi compiuta, con l'appiattimento morale della società ai diktat del regime e all'esterno l'Italia godeva ancora di un buon prestigio e soprattutto era ancora percepita come una Nazione stabile, affidabile. Il destro per organizzare una grande manifestazione venne offerto al Congresso FIFA del maggio 1932, quando la delegazione italiana accetto “con riserva” di organizzare l'edizione del 1934 della World Cup: Rimet voleva che il paese ospitante fosse in grado di organizzare una competizione migliore rispetto a quella del 1930, che si assumesse tutti i rischi economici e che le partite si svolgessero in più città. Inoltre per lui era imprescindibile la presenza delle tre squadre sudamericane più forti. L'Italia rispendeva a tutti questi criteri: disponeva, come abbiamo detto, di impianti nuovi e funzionali, si assumeva l'alea economica ed aveva buoni rapporti con le tre federazioni di Brasile, Uruguay e Argentina. 
Così durante il meeting della FIFA a Zurigo del 1932 la candidatura italiana divenne effettiva. Marco Impiglia nel suo interessante saggio dedicato alla Coppa del Mondo 1934 ci spiega bene cosa mosse l'Italia ad organizzare l'evento, rifacendosi ad un carteggio del presidente della FIGC Giorgio Vaccaro alla Presidenza del Consiglio del febbraio 1934. Se è vero che il regime fascista abusò politicamente dell’evento – ed Impiglia bene ne mostra i fatti – “parimenti s’adoperò per organizzarlo bene”, valutandone i numerosi aspetti, non solo sportivi e di propaganda nazionale, ma anche turistici, quindi economici16.
Tutto doveva funzionare alla perfezione, e tutto funzionò perchè tutti i gerarchi fascisti impegnati nello sport e tutto il corpo diplomatico lavorarono e si impegnarono all'unisono per la buona riuscita del torneo. Come rileva Ghirelli l'organizzazione fu curata nei minimi dettagli, furono creati dalla FIGC sei uffici, ognuno dedicato ad un singolo aspetto della manifestazione: amministrativo (diretto dal rag. Bertoldi), tecnico (ing. Barassi), viaggi e alloggi (comm. Ferretti), stampa e propaganda (dr. Zauli), ricevimenti ufficiali (sig. Viola), congresso FIFA (conte Millo)17. Sicuramente tra le iniziative di più impatto mediatico che contribuirono al coinvolgimento della popolazione italiana fu l'organizzazione di un concorso per cartelloni di propaganda all'evento. Leggiamo direttamente del volume ufficiale pubblicato dalla federazione che vennero presentati ben 158 lavori e tra questi venne scelto il manifesto di Luigi Martinati, mentre altri tre vennero scelti per la serie di francobolli emessi in occasione della manifestazione e per la copertina del programma del torneo18. Non solo. Per la prima volta EIAR e Istituto Luce misero in campo un apparato faraonico, coprendo l'intera manifestazione e garantendo anche a chi abitava in luoghi remoti lontani dalle principali città di seguire al cinema i riflessi filmati delle azioni più importanti delle partite19. Insomma possiamo senz'altro affermare che il fascismo fece qualsiasi sforzo per giungere al risultato prefissato che, come abbiamo più volte sottolineato, era quello di accreditarsi all'opinione pubblica internazionale come una forza seria di governo guidata dal carisma di Mussolini, che un paio di giorni dopo la finalissima incontrava per la prima volta Adolf Hitler. 
Tutta la stampa di regime – e non poteva essere altrimenti – sottolineò il risultato amministrativo dell'evento. Una fra le tante la voce del Guerin Sportivo che così rappresentò l'epopea del mondiale italiano:
(...) L'apoteosi di Roma ha chiuso nel modo più degno l'avvenimento senza confronti. Tutto bene, letizia generale: il titolo è in nostre mani, i conti tornano e c'è rimasto anzi un certo margine tanto per dimostrare che non si era stati avventati nelle previsioni (…).20
Lo stesso Vaccaro esterna il suo compiacimento nell'aver evitato il deficit di bilancio nelle note introduttive del volume ufficiale pubblicato per celebrare la vittoria azzurra:
(...) Ci siamo sforzati di non perdere mai di vista il fine massimo al quale si tendeva, che era quello di dimostrare che lo sport fascista spazia ad alta quota di idealità, per responsabilità di Dirigenti e per maturità di folle sportive. E che tutto ciò promana da un unico ispiratore: il DUCE.”21
Lo stesso Impiglia getta una luce importante su un aspetto altrettanto decisivo, uscendo definitivamente da un percorso agiografico che ci permette di comprendere come in quel Mondale tutte le componenti del regime si mossero per arrivare al risultato finale: per ciò che concerne il lato amministrativo ed organizzativo abbiamo detto, dal lato sportivo Impiglia bene spiega quali furono gli “agganci diplomatici” che permisero all'organizzazione italiana di contare su alcuni arbitri controllandoli durante tutta la manifestazione: lo svedese Eklind, lo svizzero Mercet e il belga Baert22.
Come più volte affermato, calcio e fascismo si unirono in un abbraccio che portò benefici ad entrambi, ma che mutò definitivamente e per sempre il calcio stesso. Ghirelli sostiene – e non senza ragioni – che il calcio che uscì dai mutamenti degli anni'20 del Novecento era un calcio che si sposava bene con il modo di essere del regime fascista, rivoluzionario sì ma che “si acconciava a quel caos strutturale che in termini economici si chiamò corporativismo”. E sappiamo bene quanto il calcio italiano – la società italiana? - si crogioli ancora oggi nel pantano burocratico che tutto ammorba e paralizza. Lo stesso giornalista napoletano nel suo Storia del calcio in Italia cita un passo di Carlo Doglio su un punto decisivo nella storia di questo sport, spiegando come dopo la fascistizzazione del calcio nessuna società calcistica avrebbe mai più potuto raccontare la propria storia economica23. Effetti, dunque, ben visibili e tangibili anche ai nostri giorni.
Quando un gioco è importante per miliardi di persone, cessa di essere semplicemente un gioco. Il calcio non è mai solo calcio: aiuta a fare guerre e rivoluzioni, affascina mafiosi e dittatori.”24
Ciò che scrive Kuper è, in sintesi, il destino di un gioco che è diventato universale, che ha legato, lega e legherà ancora le sue vicende con quelle più profonde ed importanti del XX secolo e di quello in cui stiamo vivendo, alimentando speranze, delusioni, rivolte e pacificazioni il tutto partendo sempre da lì, da un pezzo di terra ricoperto di erba, con ventidue ragazzi che corrono dietro ad un pallone.




1 Luigi, Salvatorelli, La Triplice Alleanza – Storia diplomatica 1877-1912,ISPI, Milano, 1939
2 Per approfondire i motivi e le interpretazioni legate all'art. VII del Trattato della Triplice Alleanza cfr. Alessandro, Bassi, 1915. Dal football alle trincee, Bradipolibri Editore, Ivrea, 2015
3 La lettera venne pubblicata da Salandra e ripresa da Luigi, Albertini, Vent'anni di vita politica, Vol.III, Zanichelli, Bologna, 1951
4 Sergio, Giuntini, Lo sport e la grande guerra. Forze armate e movimento sportivo in Italia di fronte al primo conflitto mondiale, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, Roma, 2000
5 Cfr. La Gazzetta dello Sport del 4 gennaio 1915
6 Nicola, Sbetti, Lo Sport Illustrato e la Grande Guerra (1913-1915) sta in Lo sport alla Grande Guerra, Quaderni della SISS, n.4 Serie Speciale, 2015
7 Lauro, Rossi, Lo Sport nei campi di prigionia durante la Grande Guerra sta in Lo sport alla Grande Guerra, Quaderni della SISS, n.4 Serie Speciale, 2015
8 Antonio, Papa, Guido Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Il Mulino, Bologna, 2002
9 Antonio, Ghirelli, Storia del calcio in Italia, Einaudi, Torino, 1967
10 Mario, Rigoni Stern, Le stagioni di Giacomo, Einaudi, Torino, 1995
11 Le parole di Baloncieri sono riportate in Carlo, Chiesa, La grande storia del calcio italiano, supplemento a Guerin Sportivo
12 Antonio, Ghirelli, Op. cit.
13 Cfr. La Stampa del 29 ottobre 1934
14 Per approfondimenti cfr. www.storiedifootballperduto.blogspot.it la sezione dedicata alla Carta di Viareggio
15 Antonio, Papa, Guido, Panico, Op. Cit.
16 Marco, Impiglia, Fifa World Cup 1934: Mussolini trucco’ il gioco?,
17 Antonio, Ghirelli, Op. Cit.
18 Bruno, Zauli, Coppa del mondo – Cronistoria del II campionato mondiale di calcio, F.I.G.C., Roma, 1936
19 Marco, Impiglia, Op. Cit.
20 Cfr. Guerin Sportivo n.25 del 13 giugno 1934
21 Bruno, Zauli,Op. Cit.
22 Marco, Impiglia, Op. Cit.
23 Antonio, Ghirelli, Op. Cit.
24 Simon, Kuper, Calcio e potere, ISBN, 2008

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