Premessa
Lo
sport moderno, quello per intenderci che nasce in Inghilterra nella
seconda metà del'700, è stato osservato da numerosissime
angolazioni, studiato minuziosamente nelle sue più svariate
sfaccettature. In particolare l'evento sportivo in quanto
catalizzatore di pulsioni, gioie, speranze e delusioni è stato
analizzato in rapporto alla produzione di tutta una serie di rituali
che hanno fornito – e tuttora forniscono – un'identità comune
alle comunità che in esso si riconoscono.
Il
calcio, più e meglio di qualsiasi altro sport in Italia, è stato
strumento e motivo di divisione ed aggregazione identitaria tra le
sempre più numerose folle di appassionati. Da subito il calcio ha
diviso gli appassionati per il profondo radicamento territoriale
delle squadre che si sono legate in maniera molto forte con la città
e il paese che rappresentavano, portando quindi al sorgere di alcune
forme di “tifo” e di schermaglie sempre più violente tra le
fazioni rivali.
Allo
stesso tempo, però, il calcio è stato “usato” per creare
un'identità nazionale per un popolo che Nazione
non era ancora. Già durante i mesi di neutralità italiana
immediatamente successivi allo scoppio della Grande Guerra la
Nazionale è stata strumento di unità solidale ed irredentista,
usata nella campagna anti-austriaca per mobilitare le masse degli
sportivi all'intervento contro l'antico dominatore.
Con
il primo dopoguerra, complice la drammatica eredità lasciata da
durissimi anni di guerra, la scena politica è mutata radicalmente:
preso il potere, Mussolini con il suo regime dittatoriale ed
ideologico ha capito che lo sport, il calcio meglio di tutti, poteva
e doveva essere sfruttato come mezzo di propaganda. La
“fascistizzazione” dello Stato passa pertanto anche dallo sport,
prima con la creazione dell'Opera Nazionale Balilla (sport di base),
quindi con la cosiddetta “Carta di Viareggio” (strutture
calcistiche di ogni livello) sino all'apoteosi dell'identificazione
della “grandezza” del regime nella Nazionale vincitrice del
Mondiale del 1934.
Uno stralcio del presente scritto è stato pubblicato nel volume #2 Identity della rivista Uno-Due (www.uno-due.it).
Unità
d'Italia e “leisure time”
Quando
nel nostro Paese si giocano le prime partite di football delle quali
abbiamo testimonianza documentata la stagione risorgimentale,
culminata con la proclamazione del Regno d'Italia (1861), è
terminata da poco meno di trentanni. Nello specifico, il periodo
compreso tra gli anni'60 e la seconda metà degli anni'80 del XIX
secolo è caratterizzato soprattutto dalla ricerca, da parte dei
governi, di dotare il neonato Stato italiano di stabilità economica,
politica, amministrativa, finanziaria e militare. Per poter
raggiungere questi obiettivi l'Italia dell'epoca si tenne lontana
dalle varie questioni internazionali sin dopo il Congresso di Berlino
(1878): Visconti-Venosta, responsabile della politica estera italiana
sin dal 1869 affermava infatti che scopo della politica estera post
1870 dovesse essere quella di “affrettare
il momento in cui finalmente si riuscisse a far parlare poco di sé”1.
Considerato il grave stato delle condizioni sanitarie medie in cui
versava l'Italia post unitaria bene sintetizzate da Antonio Papa e
Guido Panico, con la salita al potere della Sinistra (1876) si andò
sempre più intensificando l'opera governativa volta al miglioramento
della salute degli italiani2.
Un po' ovunque nascevano società ginnastiche e con il 1878 la legge
n.4442 del 7 luglio introduceva l'insegnamento della ginnastica nella
scuola italiana, a conclusione di un processo decisionale che aveva
preso le mosse già ai tempi del Regno di Sardegna: si vedeva,
infatti, di buon occhio l'insegnamento della ginnastica che, con la
sua ferrea disciplina, era considerata particolarmente adatta a
formare chi avrebbe dovuto guidare le sorti del Paese. Il passo è
decisivo e la scuola – come sottolinea Giacomo Zanibelli – con
l'insegnamento della ginnastica diventava il tramite “per
formare una coscienza nazionale nelle menti delle giovani
generazioni”3.
Ancor più esplicito è Giorgio Seccia quando spiega che in Italia il
modello che venne recepito in un primo momento fu quello
di una educazione fisica diretta ai fini militari, poiché lo scopo
principale era quello di sviluppare nei giovani tutta una serie di
caratteristiche morali oltreché fisiche che li avrebbero dovuti
forgiare per l'età adulta: obbedienza, coraggio, lealtà,
resilienza, leadership e correttezza4.
Negli
ultimi venti anni del XIX secolo le città in Italia conoscono un
enorme crescita; cambiano le abitudini lavorative e di conseguenza
anche i costumi e gli stili di vita mutano, seguendo le nuove
opportunità. Nasce un fenomeno sociale che caratterizzerà e
condizionerà l'uomo contemporaneo nel suo futuro: il tempo libero. I
ritmi lavorativi non sono più scanditi dai tempi biologici della
terra e delle stagioni come accade in campagna, bensì dai cicli
produttivi delle fabbriche: il lavoro viene strutturato – anche
attraverso le prime lotte e le prime rivendicazioni degli operai –
in turni, e gli uomini sperimentano nuovi modi di riempire il tempo
libero. Contemporaneamente i nuovi abitanti delle città sono anche
funzionari, piccoli imprenditori e professionisti, il ceto medio,
insomma, che ha tempo libero e denaro sufficiente da spendere
assistendo a spettacoli ed eventi sportivi. È in questo clima che lo
sport in generale diventa prodotto da usufruire, guardare e discutere
non solo – si badi bene – individualmente bensì collettivamente,
condividendo
emozioni e aspettative e pertanto consolidando una certa forma di
identità prima sportiva e quindi nazionale. Se, come abbiamo visto,
l'educazione fisica e un rinvigorito riguardo per il benessere fisico
hanno contribuito ad un interesse via via maggiore verso lo sport, i
giornali sempre in quegli anni hanno svolto un fondamentale lavoro di
volano alla pratica sportiva e all'identificazione dello spettatore
con i primi campioni e le prime squadre, raccontando l'evento
sportivo e divulgando la conoscenza dello sport attraverso un sempre
più affinato utilizzo di un lessico specializzato. Lo sport,
pertanto, da quel momento viene utilizzato dagli appartenenti a
determinati gruppi per sostenere la propria identità, esaltare un
campione in quanto “uno di noi” ovvero demonizzandone un altro
perchè “uno degli altri”. A tal proposito Nicola Sbetti rileva
che “questo tipo di identificazione
può rivelarsi particolarmente efficace a livello nazionale e anche
per questa ragione, dalla fine del XIX secolo ad oggi, le élite
dominanti non hanno esitato ad adottare lo sport nei processi di
nation
building e di rafforzamento
dell'identità nazionale”5.
Il
football dei pionieri: identità e “tifo”
Il
calcio era sport nuovo, giovane. Fascinoso. Da un lato era uno
strumento che permetteva ai suoi seguaci di esteriorizzare le
pulsioni consentendo agli appartenenti ad ogni ceto sociale di
identificarsi in una squadra, di credere in una causa, in una
bandiera. Dall'altro era la risposta alla richiesta di novità e di
modernità dei giovani aristocratici dell'epoca: non a caso il calcio
in Italia si sviluppò e si strutturò prima a Torino e Genova
soprattutto grazie all'opera dei giovani rampolli sabaudi nella città
piemontese e grazie ai diplomatici e commercianti inglesi a Genova.
Ma è solo l'inizio: da quel primo momento il calcio piano piano
contagia tutti gli strati sociali, dai più elevati ai più bassi,
proliferando in tutte le regioni. A proposito di ciò, appare
interessante qua appena accennare al fatto che il calcio arrivò e si
sviluppò anche laddove la Federazione del calcio non arrivò se non
successivamente. Caso piuttosto emblematico è quello della Sardegna.
Sull'isola la Federazione organizzò i suoi primi tornei soltanto nel
primo dopoguerra ma già sul finire del XIX secolo il calcio si prese
a giocare, grazie ai marinai inglesi e agli studenti. Il calcio in
Sardegna anche senza la Federazione riuscì ad imporsi formando una
classe di dirigenti, di calciatori e anche di pubblico, conquistando
sempre più interesse6.
Da
subito questo sport ha permesso, forse meglio di qualsiasi altro, ai
suoi spettatori di identificarsi in qualcosa che li riunisse sotto
una sola bandiera. Letta così non sorprende la storia di questo
sport vista sotto la lente del comportamento degli spettatori.
Analizzando partita dopo partita attraverso le cronache dell'epoca,
via via sempre più puntuali e ricche di dettagli, vediamo che così
come muta ed evolve il gioco nello stesso modo cambia il
comportamento di chi assiste e si interessa alle partite. L'inizio è
per pochi intimi. Il calcio in Italia sul finire del XIX secolo viene
seguito davvero da pochissime persone, il pubblico è un tutt'uno
formato da sparuti curiosi e dai dirigenti delle squadre stesse. Le
cronache dell'epoca – quando ci sono – ci raccontano di un
pubblico composto da poche decine di persone ma, ed è elemento che
merita senz'altro di essere sottolineato, caratterizzato da una buona
presenza femminile. La cosa non deve meravigliare. Come bene spiegano
Papa e Panico fino a quando il calcio rimase un fenomeno di élite,
un divertimento della nobiltà e dei ceti più abbienti la presenza
femminile ai bordi del campo fu una costante, una peculiarità
propria del gioco del football7.
Tanti sono gli esempi che il giornalismo ci racconta, anzi: nel
racconto delle prime gare calcistiche i giornali davano molto risalto
alla narrazione di tutto ciò che stava attorno al gioco, in special
modo veniva raccontato di chi componeva il pubblico e di come il
pubblico percepiva il gioco8.
Tutto
ciò però muta non appena il football smette di essere gioco di
nicchia per diventare un gioco – sebbene non ancora di massa – di
tendenza, che incuriosisce un numero sempre maggiore di persone. Man
mano che il pubblico aumenta diminuisce la presenza femminile; da
evento festoso, di intrattenimento la partita di calcio si trasforma
ed aumentano i casi di frizione e di intemperanze tra il pubblico,
che va organizzandosi in maniera differente rispetto a prima. Il
calcio, dunque, accende gli animi, unisce un gruppo di persone sotto
un'unica bandiera e divide il pubblico in base all'appartenenza. Si
assistono ai primi episodi di intemperanza, di violenza. E sono
sempre più frequenti. Da un lato infatti assistiamo alle prime
manifestazioni violente già nella seconda metà del primo decennio
del Novecento, per poi farsi sempre più frequenti mano a mano che le
fila dei seguaci delle varie squadre si ingrossano sempre più. E' in
quella prima fase una manifestazione campanilistica diretta prima
verso l'arbitro e poi verso la squadra avversaria, caratterizzata da
un'identità stretta con la città della propria squadra. Con gli
anni'20, successivamente, assistiamo ad una metamorfosi del fenomeno,
certificato – se così vogliamo dire – da un articolo a firma di
Giovanni Dovara apparso sulle colonne de Il
Calcio sul
finire del 1923 dove si cerca di spiegare il nuovo aspetto con il
quale si manifesta la passione sportiva: il tifo.
“Non è
fortunatamente la terribile malattia infettiva, di cui vogliamo
parlare, ma, come ognun comprende, la malattia sportiva, onde, più o
meno, sono infetti, in questa stagione, gli appassionati del Giuoco
del Calcio. Fenomeno di passione acuita a tal punto da rivestire e da
assumere in certi casi ed in certe persone, i fenomeni più
patologici! (…) Malattia il cui bacillo penetra insidioso ovunque,
nelle persone d'ambo i sessi, e turba e sconvolge i pensieri di
severi scienziati, di illustri professoroni, di timorose madri
casalinghe e di spose amorose senza distinzione di fedi politiche e
di religione, onde, magari, il comunista fegatoso si trova, una volta
tanto almeno, disposto a discutere e ad accordarsi con il più
arrabbiato ed intransigente fascista.”9
Ovviamente
non c'è identità stretta tra tifo e violenza, tra passione e
aggressività, perlomeno non nell'immediato. Certo è che con gli
anni'20 e '30 assistiamo ad un numero sempre crescente di incidenti e
di manifestazioni violente che hanno come matrice comune quella del
tifo per una o l'altra squadra, identificando nell'altro il nemico da
combattere dentro e fuori dal campo. Complice di questa escalation
violenta fu anche il sempre più crescente numero di persone che
iniziarono a seguire anche in trasferta la propria squadra del cuore,
trasferte che erano mutate profondamente rispetto alle prime
scampagnate d'inizio secolo, quando seguire la propria squadra del
cuore significava essenzialmente vivere una domenica “fuori porta”.
Con gli anni'20 l'aspetto “bucolico” della trasferta si restringe
sempre più, sovrastato da quello più parossistico del tifo. E non
manca, ne va di conseguenza, un salto di qualità in negativo del
fenomeno, come testimonia la sparatoria che il 5 luglio 1925 alla
stazione di Porta Nuova a Torino vide protagonisti i tifosi di Genoa
e Bologna in occasione del terzo spareggio per l'assegnazione del
titolo di campione d'Italia. Parallelamente assistiamo anche ad una
spaccatura all'interno di quelle città che presentavano più di una
società di calcio, più esattamente il tifo viene eterodiretto da
ragioni che riguardano più aspetti socio-urbani rispetto a quelle
semplici di simpatia verso una o l'altra società. Essendosi
modificato il pubblico calcistico d'inizio secolo con l'ingrossamento
delle proprie fila, con l'ingresso di sempre più ampi strati della
popolazione, con gli anni'30 l'identità con una squadra coincide
sempre più spesso con una rappresentazione plastica del proprio ceto
sociale: così come a Roma la Lazio era espressione dell'alta
borghesia, la Roma – che giocava al Testaccio – era la squadra
della borgata. Ma di esempi ce ne sono molti e stanno alla base
delle rivalità stracittadine che ancora oggi infiammano i
campionati. Il tifo per una determinata squadra identifica uno strato
sociale, un ambiente cittadino e culturale, dividendo quella stessa
città in una o più fazioni.
Il
concetto di “Nazionale”: dalla rappresentativa alla nazionale
Se
il tifo divide gli appassionati a seconda della propria squadra di
club preferita, è altrettanto vero che riesce ad unire un intero
popolo attorno alla Nazionale di appartenenza, anche se questo
vincolo si è andato via via facendo più sciolto negli ultimi anni e
valido sempre più soltanto in occasione delle grandi manifestazioni
internazionali, quali Mondiali ed Europei.
Sin
dalle sue origini più remote il football italiano ha sentito il
bisogno di rappresentare il proprio movimento con una squadra che
potesse in modo tangibile certificare la propria esistenza
misurandosi con esperienze analoghe d'oltre confine. Come tutti
sappiamo la Federazione del calcio italiana nasce nel 1898 e in
quell'anno organizza il suo primo campionato di calcio: le squadre
affiliate sono poche, quasi tutte di stanza a Torino e Genova e quasi
tutte composte in larga parte da giocatori stranieri, svizzeri e
inglesi in particolare a seconda di dove i rapporti commerciali
fossero più stretti. Le élites di quelle città danno sponda a
commercianti e marinai stranieri creando così quel primo nucleo di
interesse verso il gioco del football che si estrinseca con la
creazione della prime squadre italiane di football. A Torino il
commerciante Bosio nel 1887 crea il Football
and Cricket Club, nel 1889 i giovani rampolli di casa Savoia e
Ferrero di Ventimiglia creano la squadra dei Nobili e due anni più
tardi questi stessi protagonisti decidono di fondersi insieme in
un'unica squadra, l'Internazionale di Torino, mentre a Genova
aristocratici, commercianti e professionisti si riuniscono attorno al
consolato inglese per dar vita ad un club cittadino che offra loro
gli stessi svaghi presenti già da diversi anni in madrepatria: il
Genoa Cricket and Athletic Club.
Bisogna tenere quindi a mente questa
cornice nella quale si muovono i primi pionieri, un ambiente
fortemente influenzato da voglia di novità, di futuro e di scambi
culturali con il resto d'Europa, per capire su quali basi nel 1899
venne organizzato il primo incontro internazionale di calcio di una
rappresentativa italiana, incontro che si svolse al Velodromo Umberto
I di Torino. Ciò che quella squadra rappresentava – o voleva
rappresentare - era il meglio del movimento calcistico italiano
dell'epoca, senza distinzioni di nazionalità. Il criterio di
selezione adottato era “residenziale”, cioè facevano parte di
quella selezione i migliori calciatori che giocavano al momento in
Italia: “Ier
l'altro, al Velodromo Umberto I, davanti ad un pubblico discretamente
numeroso, venne disputato il Gran Match fra una squadra di svizzeri e
una di italiani composta dei migliori giucatori di Torino, Genova e
Milano”10.
Per
arrivare al concetto di Nazionale quale rappresentativa del meglio
del movimento italiano formata pertanto dai migliori giocatori
italiani occorre attendere una decina di anni, occorre attendere
quindi che il football in Italia esca dalla piccola nicchia degli
esordi e diventi un fenomeno di tendenza, con un proprio pubblico e
regolamenti un po' più strutturati. In questi dieci anni alcune
squadre nate nell'Ottocento scompaiono, mentre nascono e crescono
squadre formate da primi appassionati italiani, si pensi su tutte a
Juventus e Pro Vercelli. In più il mondo calcistico fa propri alcuni
concetti mutuati dal mondo della ginnastica, laddove le squadre di
calcio erano assolutamente autarchiche e si arriva così nel 1910
alla prima rappresentativa completamente italiana, quando presidente
federale da un anno è Luigi Bosisio più incline di altri a dare un
impronta nazionalistica al movimento calcistico.
Viene quindi
nominata una commissione che ha il compito di selezionare il meglio
tra i calciatori italiani: nel giro di quattro mesi e dopo due
incontri di selezione tra due squadre miste, “probabili” contro
“possibili” il 15 maggio 1910 la Nazionale italiana gioca la sua
prima gara.
È una Nazionale dal forte connotato milanese e
completamente priva dei giocatori vercellesi squalificati per le note
vicende relative allo spareggio contro l'Internazionale di pochi
giorni precedente. Da rilevare, peraltro, come ancora il concetto di
“nazionale” sia piuttosto relativo: vero che sono scomparsi gli
stranieri, ma la selezione ha riguardato soltanto poche squadre e
comunque soltanto del nord: ancora ignorato del tutto è il calcio
giocato non solo nel centro-sud ma anche nel nord-est della penisola.
Il fatto è che le scelte furono il frutto di pesi e contrappesi
dovuti alle pressioni delle società più influenti, ma nonostante
ciò il debutto fu alquanto positivo – complice anche la scelta
dell'avversario, non certamente invincibile – e pochi giorni dopo
l'Italia, ancora di bianco vestita, andò a Budapest dove perse
sonoramente davanti ad oltre 15.000 spettatori contro l'Ungheria.11.
Va peraltro sottolineato che ancora l'opinione pubblica non
percepisce questa squadra come un qualcosa che rappresenti non solo
il movimento calcistico ma ancor più un'identità nazionale nel
contesto internazionale. E non cambia neanche dopo la sfortunata e
ben poco brillante esperienza alla Olimpiadi di Stoccolma del 1912.
Qualcosa pare cambiare in coincidenza dell'incontro programmato con
il Belgio nel maggio 1913. Complice le due sconfitte con Austria e
Francia seguenti alla disfatta olimpica, la Commissione
selezionatrice decide di cambiare metodologie di selezione. O meglio,
riesce a resistere alle pressioni esterne dei club più influenti e
così facendo sviluppa una nuova idea di selezione, facendo un salto
di qualità fondamentale sia sul piano tecnico, sia – per quel che
qua ci interessa – sul piano dell'identità nazionale: decide
infatti di affidarsi ad un “blocco” di giocatori provenienti da
una sola società e ad esso affidare il gioco della squadra. Siamo
nel 1913, in piena epoca d'oro delle Bianche
Casacche
vercellesi e quella Nazionale venne composta da ben 9 giocatori della
Pro Vercelli, oltre al milanista De Vecchi e a Fresia dell'Andrea
Doria. Come detto la scelta si rivelò vincente da tutti i punti di
vista: a livello tecnico la squadra era rodata, sapeva giocare
d'assieme perché abituata a farlo e il risultato fu una più che
lusinghiera vittoria per 1-0; ma lo fu anche a livello emotivo,
mediatico perché a quella partita parteciparono in massa i tifosi
vercellesi creando un raccordo identitario tra squadra locale e
rappresentativa del calcio nazionale.
(Continua -1)
1 Federico,
Chabod, Storia della politica estera italiana 1870-1896,
Laterza, Bari, 1951
2 Antonio,
Papa, Guido Panico, Storia sociale del calcio in Italia,
Il Mulino, Bologna, 2002
3 Giacomo,
Zanibelli, La scuola al fronte: l'educazione fisica come
strumento di “vocazione” patriottica. Dalle sonnacchiose aule
dell'italietta alla trincea. Il caso senese,
sta in Lo sport alla Grande Guerra,
Quaderni della SISS, n.4 Serie Speciale, 2015
4 Giorgio,
Seccia, Il calcio in guerra,
Gaspari Editore, 2011
5 Nicola,
Sbetti, Le identità europee nello sport,
Altre Modernità, Università degli Studi di Milano, 2015
6 Alessandro,
Bassi, Il football dei pionieri. Storia del campionato di calcio
in Italia dalle origini alla I Guerra Mondiale,
Bradipolibri Editore, Ivrea, 2012
7 Antonio,
Papa, Guido Panico, Op. cit.
8 Giusto
a titolo esemplificativo, si leggano gli articoli di stampa
seguenti: Il Caffaro del 8
gennaio 1898; La Stampa
del 29 aprile 1901; La Stampa Sportiva
del 13 aprile 1902; Corriere della Sera
del 13 febbraio 1905
9 Cfr.
Il Calcio del 22 dicembre
1923
10 Cfr.
La Stampa del 2 maggio 1899.
Incontro disputato a Torino il 30 aprile 1899 tra una
rappresentativa italiana ed una svizzera, con la vittoria di
quest'ultima per 2-0. La squadra italiana era composta da: Beaton
(Torino), De Galleani (Genova), Dobbie (Torino, capitano), Bosio
(Torino), Spensley (Genova), Pasteur (Genova), Leaver (Genova),
Weber (Torino), Kilpin (Milano), Savage (Torino), Agar (Genova)
11 Alessandro,
Bassi, Op. cit.
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