venerdì 4 novembre 2016

LA CARTA DI VIAREGGIO DEL 1926

Lo status dei giocatori 

Ultimo aspetto, non certo il meno importante, riguardava il nuovo “status” del calciatore. 
Per tutto il suo periodo pionieristico il calcio italiano era stato improntato all'insegna del dilettantismo, come anche rimarcato nel Regolamento che la F.I.G.C. emanò nel 1909, anche se non mancarono – possiamo dire da subito – casi di società che per accaparrarsi i giocatori migliori promettevano loro posti di lavoro e “benefit”1. Questo atteggiamento della Federazione e del mondo tutto calcistico italiano si rifaceva all'ideale del gentleman-amateur, ideale che era arrivato in Italia assieme ai primi rudimenti sul nuovo gioco: eppure, seppur proprio in Gran Bretagna il professionismo fosse riconosciuto già a partire dal 1885, qui da noi l'idea incontrò sempre molte resistenze, se è vero come è vero che ancora nel 1925 la F.I.G.C., dopo i “casi” dei calciatori Rosetta e Calligaris, ribadiva con forza la piena condanna al professionismo. Qualcosa – e non solo in Italia – comunque si stava muovendo e mutava il quadro d'insieme, nuovi interessi iniziavano a ruotare attorno al calcio, sempre più imprenditori facoltosi acquistavano società pronti ad investire cifre importanti per raggiungere le vittorie2. A metà anni'20 era ormai inevitabile porsi il problema del professionismo e dare risposte adeguate.
La Carta di Viareggio recepiva quanto già statuito dalla F.I.F.A. nel congresso di Roma del 1926 laddove la Federazione internazionale, pur continuando a proclamare il principio del dilettantismo per i calciatori, di fatto lasciava alle singole federazioni nazionali il compito di inquadrare concretamente il calciatore e quindi – in altre parole – dava loro la possibilità di prevedere un “compenso” per i giocatori. Ovviamente quel “compenso” non poteva essere in alcun modo una retribuzione diretta, ossia elargita in relazione ad una prestazione di gioco, ma poteva benissimo essere inteso nel senso di “indenizzo” per il “mancato guadagno” che il calciatore avrebbe subito a causa dell'attività calcistica.
Leggiamo dall'Annuario del Giuoco del Calcio del 1929:
Il Congresso conferma la definizione del dilettante così e come è stata adottata al Congresso di Parigi. Sulla questione del rimborso eccezionale del mancato guadagno il congresso, allo stato della questione (fait confiance) affida alle Associazioni nazionali di definire provvisoriamente leur statut personel3
Dicevamo, la Carta di Viareggio si adeguò e, pur non riconoscendo il professionismo, distinse i calciatori in Dilettanti e Non Dilettanti, prevedendo per questi ultimi l'obbligo di depositare in Federazione “copia degli impegni di rimborso spese e mancato guadagno, firmata dal rappresentante della Società e dal giocatore”.
Grande attenzione veniva riservata al controllo dello status di dilettante, prevedendo, tra l'altro che la Presidenza del C.O.N.I. nominasse una Commissione del dilettantismo composta da tre membri con il compito di vigilare sull'applicazione integrale delle norme sul dilettantismo e prevedendo “gravissime sanzioni contro i colpevoli, essendo le Società e i giuocatori solidalmente responsabili”.

Le novità riguardanti i giocatori non finivano però qua. Si chiudevano le frontiere e si prevedeva che ai campionati italiani potessero partecipare soltanto giocatori di nazionalità e cittadinanza italiana, prevedendo, quale norma transitoria per la stagione successiva, dunque quella del 1926/27, la possibilità per ciascuna società di tesserare al massimo due giocatori stranieri, fatto obbligo però di poterne schierare soltanto uno per ogni partita. Per ciò che riguardava i trasferimenti dei giocatori, cadeva ogni vincolo territoriale (dal 1922 il calciatore poteva cambiare squadra soltanto se la sua residenza anagrafica coincideva con quella del club) ma dovevano comunque sempre essere espressamente autorizzati dal Direttorio Federale:
a) giuocatori chiamati a prestare servizio militare (…) per il periodo del servizio effettivo e per una Società avente sede ove il servizio viene prestato;
b) giuocatori stranieri, già tesserati in Italia nella stagione 1925-1926, che sono rimasti in soprannumero a norma delle disposizioni riguardanti la partecipazione dei giuocatori straneiri al Campionato;
c) giuocatori che avanti la data del 31 luglio 1926 abbiano avuto ragioni di insanabile dissenso con la loro Società, per motivi di eccezione gravità di natura in ispecie morale ovvero giuocatori ai quali la Società dichiari, motivando, di non voler più conservare nei propri ruoli4.
Antonio Papa e Guido Panico riportano un dato molto interessante, comparando il numero dei giocatori retribuiti in Italia e Inghilterra negli anni'30:
Nel corso degli anni'30 la media dei giocatori retribuiti, circa cinquecento, rappresentò solo l'1% dei tesserati. Ciò nonostante la percentuale italiana era superiore a quella dei professionisti inglesi, che costituivano solo lo 0,4% dei giocatori delle società di football”5
Antonio Ghirelli chiosa sull'ambiguità che da allora avrebbe caratterizzato la gestione economico-finanziaria del calcio in Italia riportando ciò che Carlo Doglio scriveva nel 1952 a proposito dei deleteri effetti della riforma:
(...) nessuna società tra quante ho visitato, si sogna di poter narrare la propria storia economico-sociale post 1926-27. fino ad allora l'aneddotica cita anche i centesimi, dopo, silenzio assoluto.”6
Insomma, con questa riforma epocale il calcio italiano iniziava ad assomigliare molto al calcio dei nostri tempi, producendo una cesura tra il prima e il dopo.





1Alessandro, Bassi, Il football dei pionieri, Bradipolibri Editore, Ivrea, 2012
2Antonio, Papa - Guido, Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Il Mulino, Bologna, 1993
3 Cfr. Annuario Italiano Giuco del Calcio, Vol. II, Società Tipografica Modenese, Modena, 1929
4Ibidem
5Antonio, Papa - Guido, Panico Op. Cit.
6Antonio, Ghirelli, Op. Cit.
 

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