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venerdì 29 agosto 2014

L'ultimatum dell'Austria-Ungheria alla Serbia

Il 20 luglio Avarna comunicò a Di San Giuliano di aver avuto in via confidenziale da fonte ben informata la notizia che l'Austria-Ungheria era pronta a dirigere alla Serbia un ultimatum, nel quale le si chiedeva di uniformarsi al formale impegno, risalente al 1909, di mutare il corso della sua politica verso l'Austria-Ungheria e di prendere serie misure contro la propaganda panserba, in caso contrario l'Austria-Ungheria si sarebbe vista costretta ad usare la forza. Avarna proseguiva quindi dicendo che, dalla stessa fonte, una guerra si riteneva improbabile perché, come già era accaduto nel 1909, la Russia sarebbe riuscita a convincere la Serbia.1 Da questi documenti trapela, al contrario, come Di San Giuliano non si facesse troppe illusioni sulla possibilità di evitare una guerra, e questo spiega anche la sua duplice iniziativa di adoperarsi, da un lato, per evitare la guerra, ma contemporaneamente di richiamare l'alleato all'osservanza dell'art. VII della Triplice Alleanza nel caso il conflitto non si fosse potuto evitare. Gioverà qui ricordare in cosa consisteva l'accordo sancito nell'art. VII. Nel 1887 Italia e Austria-Ungheria stipularono un Trattato bilaterale che si andava ad aggiungere al Trattato della Triplice Alleanza stipulato nel 1882 da Italia, Germania e Austria-Ungheria, Triplice Alleanza che venne rinnovata nel 1891 e, in quell'occasione, venne ad asumere la sua redazione definitiva con l'inserimento – tra gli altri – dell'art. 1 del Trattato italo-austro-ungarico del 1887, che divenne l'art. VII del definitivo Trattato della Triplice Allenaza. Ma cosa diceva questo art.VII? Le parti contraenti avevano stipulato che in caso di modificazioni dello statu quo territoriale nella regione del Balcani o delle coste e isole ottomane nell'Adriatico e nel Mare Egeo, in forza delle quali una delle Potenze contraenti si fosse trovata nella necessità di addivenire ad una occupazione temporanea o permanente, si sarebbe dovuto raggiungere un accordo fondato sul principio di un compenso reciproco.
La questione non era affatto irrilevante poiché sarà proprio attorno a questo articolo e all'interpretazione differente che ne daranno i due contraenti che si innescherà il meccanismo dell'intervento italiano nel conflitto: il governo di Vienna sostenne che i compensi territoriali dovevano avere ad oggetto territori ottomani e che comunque era esclusa ogni cessione di territori dell'impero, compreso il Trentino; il governo italiano la vedeva in maniera diversa.
Il 20 luglio il ministro degli Esteri tedesco Jagow tentò con urgenza di convincere Berchtold a cercare un'intesa con l'Italia, proponendo che l'attenzione italiana fosse deviata da quanto l'Austria avrebbe compiuto in Serbia, prospettandole come possibile compenso il territorio di Valona, ma Berchtold rifiutò ribadendo che di compensi all'Italia non ne voleva sentire neanche parlare.2
Come bene rileva il Bülow nelle sue "Memorie", se le Potenze centrali avessero voluto avere al loro fianco l'Italia avrebbero dovuto "assicurarsi tempestivamente la cooperazione della Penisola. Ciò, s'intende, non era possibile senza concessioni da parte dell'Austria. Esse erano, data la situazione, indispensabili, se non si voleva spingere l'Italia nel campo avverso."3
Sempre il 20 Berchtold mandò a Merey una serie di telegrammi che riassumevano bene la sua strategia ancora pochi giorni prima dell'invio dell'ultimatum alla Serbia. Nel primo di questi telegrammi egli diceva di sapere che Di San Giuliano, informato probabilmente da Flotow, dei passi molto energici convenuti con la Germania contro la Serbia, aveva telegrafato a Pietroburgo e a Bucarest per indurre quei governi ad assumere un contegno minaccioso; in un altro telegramma il ministro austriaco suggeriva all'ambasciatore di prendere tempo e di affermare che Vienna sperava in un esito pacifico della sua azione contando sempre sull'atteggiamento fedele e leale dell'Italia. Nel terzo telegramma, spedito agli ambasciatori a Roma e Berlino, si diceva che - in caso di complicazioni - l'Italia avrebbe cercato di chiedere compensi fondandosi sull'art. VII, in tal caso i due ambasciatori avrebbero dovuto sostenere che l'Austria-Ungheria non mirava affatto a conquiste territoriali in Serbia, e che solo poteva risultare necessaria un'occupazione temporanea; in tal caso, però, sarebbe stato alterare profondamente la portata dell'art. VII interpretarlo nel senso che l'occupazione temporanea di territori di uno stato balcanico in guerra con la Monarchia non potesse effettuarsi se non dopo intesa avvenuta con l'Italia sulla base di un compenso.4
Il pomeriggio del 23 a Roma si apprese che il governo austriaco il giorno seguente avrebbe trasmesso a Belgrado una nota assegnandovi un termine di quarantotto ore per la risposta. Di San Giuliano, che si trovava a Fiuggi nello stesso albergo ove alloggiava l'ambasciatore tedesco Flotow venne immediatamente avvertito e, il giorno seguente, Salandra, Di San Giuliano e Flotow ascoltarono tutti assieme il tenore dell'ultimatum. Salandra riporta l'espressione che l'ambasciatore tedesco usò a commento del testo della nota austriaca: "Vraiment, c'est un peu fort".5 Ma ormai non si poteva più tornare indietro. La Stampa pubblicò la drammatica notizia nell'edizione del 25 luglio, con un articolo di fondo dall'inequivocabile titolo “Il dado è gettato”.6


1 DDI, Serie IV, vol.XII, n° 366
2 GAETANO, SALVEMINI, Op. cit., pagg.215-216
3 BERNHARD, VON BÜLOW, Memorie, vol.III, pag.171, Mondadori, Milano, 1935
4 LUIGI, ALBERTINI, Vent'anni di vita politica., Vol.II, pagg. 236-238, Zanichelli, Bologna, 1951
5 ANTONIO, SALANDRA, La neutralità italiana, pagg.74-75, Mondadori, Milano, 1928
6Cfr. La Stampa del 25 luglio 1914, n.203

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