Il
20 luglio Avarna comunicò a Di San Giuliano di aver avuto in via
confidenziale da fonte ben informata la notizia che
l'Austria-Ungheria era pronta a dirigere alla Serbia un ultimatum,
nel quale le si chiedeva di uniformarsi al formale impegno, risalente
al 1909, di mutare il corso della sua politica verso
l'Austria-Ungheria e di prendere serie misure contro la propaganda
panserba, in caso contrario l'Austria-Ungheria si sarebbe vista
costretta ad usare la forza. Avarna proseguiva quindi dicendo che,
dalla stessa fonte, una guerra si riteneva improbabile perché, come
già era accaduto nel 1909, la Russia sarebbe riuscita a convincere
la Serbia.1
Da questi documenti trapela, al contrario, come Di San Giuliano non
si facesse troppe illusioni sulla possibilità di evitare una guerra,
e questo spiega anche la sua duplice iniziativa di adoperarsi, da un
lato, per evitare la guerra, ma contemporaneamente di richiamare
l'alleato all'osservanza dell'art. VII della Triplice Alleanza nel
caso il conflitto non si fosse potuto evitare. Gioverà qui ricordare
in cosa consisteva l'accordo sancito nell'art. VII. Nel 1887 Italia e
Austria-Ungheria stipularono un Trattato bilaterale che si andava ad
aggiungere al Trattato della Triplice Alleanza stipulato nel 1882 da
Italia, Germania e Austria-Ungheria, Triplice Alleanza che venne
rinnovata nel 1891 e, in quell'occasione, venne ad asumere la sua
redazione definitiva con l'inserimento – tra gli altri –
dell'art. 1 del Trattato italo-austro-ungarico del 1887, che divenne
l'art. VII del definitivo Trattato della Triplice Allenaza. Ma cosa
diceva questo art.VII? Le parti contraenti avevano stipulato che in
caso di modificazioni dello statu quo territoriale nella regione del
Balcani o delle coste e isole ottomane nell'Adriatico e nel Mare
Egeo, in forza delle quali una delle Potenze contraenti si fosse
trovata nella necessità di addivenire ad una occupazione temporanea
o permanente, si sarebbe dovuto raggiungere un accordo fondato sul
principio di un compenso reciproco.
La
questione non era affatto irrilevante poiché sarà proprio attorno a
questo articolo e all'interpretazione differente che ne daranno i due
contraenti che si innescherà il meccanismo dell'intervento italiano
nel conflitto: il governo di Vienna sostenne che i compensi
territoriali dovevano avere ad oggetto territori ottomani e che
comunque era esclusa ogni cessione di territori dell'impero, compreso
il Trentino; il governo italiano la vedeva in maniera diversa.
Il
20 luglio il ministro degli Esteri tedesco Jagow tentò con urgenza
di convincere Berchtold a cercare un'intesa con l'Italia, proponendo
che l'attenzione italiana fosse deviata da quanto l'Austria avrebbe
compiuto in Serbia, prospettandole come possibile compenso il
territorio di Valona, ma Berchtold rifiutò ribadendo che di compensi
all'Italia non ne voleva sentire neanche parlare.2
Come
bene rileva il Bülow nelle sue "Memorie", se le
Potenze centrali avessero voluto avere al loro fianco l'Italia
avrebbero dovuto "assicurarsi tempestivamente la cooperazione
della Penisola. Ciò, s'intende, non era possibile senza concessioni
da parte dell'Austria. Esse erano, data la situazione,
indispensabili, se non si voleva spingere l'Italia nel campo
avverso."3
Sempre
il 20 Berchtold mandò a Merey una serie di telegrammi che
riassumevano bene la sua strategia ancora pochi giorni prima
dell'invio dell'ultimatum alla Serbia. Nel primo di questi telegrammi
egli diceva di sapere che Di San Giuliano, informato probabilmente da
Flotow, dei passi molto energici convenuti con la Germania contro la
Serbia, aveva telegrafato a Pietroburgo e a Bucarest per indurre quei
governi ad assumere un contegno minaccioso; in un altro telegramma il
ministro austriaco suggeriva all'ambasciatore di prendere tempo e di
affermare che Vienna sperava in un esito pacifico della sua azione
contando sempre sull'atteggiamento fedele e leale dell'Italia. Nel
terzo telegramma, spedito agli ambasciatori a Roma e Berlino, si
diceva che - in caso di complicazioni - l'Italia avrebbe cercato di
chiedere compensi fondandosi sull'art. VII, in tal caso i due
ambasciatori avrebbero dovuto sostenere che l'Austria-Ungheria non
mirava affatto a conquiste territoriali in Serbia, e che solo poteva
risultare necessaria un'occupazione temporanea; in tal caso, però,
sarebbe stato alterare profondamente la portata dell'art. VII
interpretarlo nel senso che l'occupazione temporanea di territori di
uno stato balcanico in guerra con la Monarchia non potesse
effettuarsi se non dopo intesa avvenuta con l'Italia sulla base di un
compenso.4
Il
pomeriggio del 23 a Roma si apprese che il governo austriaco il
giorno seguente avrebbe trasmesso a Belgrado una nota assegnandovi un
termine di quarantotto ore per la risposta. Di San Giuliano, che si
trovava a Fiuggi nello stesso albergo ove alloggiava l'ambasciatore
tedesco Flotow venne immediatamente avvertito e, il giorno seguente,
Salandra, Di San Giuliano e Flotow ascoltarono tutti assieme il
tenore dell'ultimatum. Salandra riporta l'espressione che
l'ambasciatore tedesco usò a commento del testo della nota
austriaca: "Vraiment, c'est un peu fort".5
Ma ormai non si poteva più
tornare indietro. La Stampa pubblicò
la drammatica notizia nell'edizione del 25 luglio, con un articolo di
fondo dall'inequivocabile titolo “Il dado è gettato”.6
1
DDI, Serie IV, vol.XII, n° 366
2
GAETANO, SALVEMINI, Op. cit., pagg.215-216
3
BERNHARD, VON BÜLOW, Memorie, vol.III, pag.171, Mondadori,
Milano, 1935
4
LUIGI, ALBERTINI, Vent'anni di vita politica.,
Vol.II, pagg. 236-238, Zanichelli, Bologna, 1951
5
ANTONIO, SALANDRA, La neutralità italiana, pagg.74-75,
Mondadori, Milano, 1928
6Cfr.
La Stampa del 25 luglio
1914, n.203
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