Lo status dei giocatori
Ultimo aspetto, non certo il meno importante, riguardava
il nuovo “status” del calciatore.
Per
tutto il suo periodo pionieristico il calcio italiano era stato
improntato all'insegna del dilettantismo, come anche rimarcato nel
Regolamento che la F.I.G.C. emanò nel 1909, anche se non mancarono –
possiamo dire da subito – casi di società che per accaparrarsi i
giocatori migliori promettevano loro posti di lavoro e “benefit”1.
Questo atteggiamento della Federazione e del mondo tutto calcistico
italiano si rifaceva all'ideale del gentleman-amateur,
ideale che era arrivato in Italia assieme ai primi rudimenti sul
nuovo gioco: eppure, seppur proprio in Gran Bretagna il
professionismo fosse riconosciuto già a partire dal 1885, qui da noi
l'idea incontrò sempre molte resistenze, se è vero come è vero che
ancora nel 1925 la F.I.G.C., dopo i “casi” dei calciatori Rosetta
e Calligaris, ribadiva con forza la piena condanna al professionismo.
Qualcosa – e non solo in Italia – comunque si stava muovendo e
mutava il quadro d'insieme, nuovi interessi iniziavano a ruotare
attorno al calcio, sempre più imprenditori facoltosi acquistavano
società pronti ad investire cifre importanti per raggiungere le
vittorie2.
A metà anni'20 era ormai inevitabile porsi il problema del
professionismo e dare risposte adeguate.
La Carta di Viareggio recepiva quanto già statuito
dalla F.I.F.A. nel congresso di Roma del 1926 laddove la Federazione
internazionale, pur continuando a proclamare il principio del
dilettantismo per i calciatori, di fatto lasciava alle singole
federazioni nazionali il compito di inquadrare concretamente il
calciatore e quindi – in altre parole – dava loro la possibilità
di prevedere un “compenso” per i giocatori. Ovviamente quel
“compenso” non poteva essere in alcun modo una retribuzione
diretta, ossia elargita in relazione ad una prestazione di gioco, ma
poteva benissimo essere inteso nel senso di “indenizzo” per il
“mancato guadagno” che il calciatore avrebbe subito a causa
dell'attività calcistica.
Leggiamo
dall'Annuario
del Giuoco del Calcio
del 1929:
“Il
Congresso conferma la definizione del dilettante così e come è
stata adottata al Congresso di Parigi. Sulla questione del rimborso
eccezionale del mancato guadagno il congresso, allo stato della
questione (fait
confiance)
affida alle Associazioni nazionali di definire provvisoriamente leur
statut personel”3
Dicevamo,
la Carta di Viareggio si adeguò e, pur non riconoscendo il
professionismo, distinse i calciatori in Dilettanti e Non Dilettanti,
prevedendo per questi ultimi l'obbligo di depositare in Federazione
“copia
degli impegni di rimborso spese e mancato guadagno, firmata dal
rappresentante della Società e dal giocatore”.
Grande
attenzione veniva riservata al controllo dello status di dilettante,
prevedendo, tra l'altro che la Presidenza del C.O.N.I. nominasse una
Commissione del dilettantismo composta da tre membri con il compito
di vigilare sull'applicazione integrale delle norme sul dilettantismo
e prevedendo “gravissime
sanzioni contro i colpevoli, essendo le Società e i giuocatori
solidalmente responsabili”.
Le novità riguardanti i giocatori non finivano però
qua. Si chiudevano le frontiere e si prevedeva che ai campionati
italiani potessero partecipare soltanto giocatori di nazionalità e
cittadinanza italiana, prevedendo, quale norma transitoria per la
stagione successiva, dunque quella del 1926/27, la possibilità per
ciascuna società di tesserare al massimo due giocatori stranieri,
fatto obbligo però di poterne schierare soltanto uno per ogni
partita. Per ciò che riguardava i trasferimenti dei giocatori,
cadeva ogni vincolo territoriale (dal 1922 il calciatore poteva
cambiare squadra soltanto se la sua residenza anagrafica coincideva
con quella del club) ma dovevano comunque sempre essere espressamente
autorizzati dal Direttorio Federale:
a) giuocatori chiamati a prestare servizio militare
(…) per il periodo del servizio effettivo e per una Società avente
sede ove il servizio viene prestato;
b) giuocatori stranieri, già tesserati in Italia
nella stagione 1925-1926, che sono rimasti in soprannumero a norma
delle disposizioni riguardanti la partecipazione dei giuocatori
straneiri al Campionato;
c)
giuocatori che avanti la data del 31 luglio 1926 abbiano avuto
ragioni di insanabile dissenso con la loro Società, per motivi di
eccezione gravità di natura in ispecie morale ovvero giuocatori ai
quali la Società dichiari, motivando, di non voler più conservare
nei propri ruoli4.
Antonio Papa e Guido Panico riportano un dato molto
interessante, comparando il numero dei giocatori retribuiti in Italia
e Inghilterra negli anni'30:
“Nel
corso degli anni'30 la media dei giocatori retribuiti, circa
cinquecento, rappresentò solo l'1% dei tesserati. Ciò nonostante la
percentuale italiana era superiore a quella dei professionisti
inglesi, che costituivano solo lo 0,4% dei giocatori delle società
di football”5
Antonio Ghirelli chiosa
sull'ambiguità che da allora avrebbe caratterizzato la gestione
economico-finanziaria del calcio in Italia riportando ciò che Carlo
Doglio scriveva nel 1952 a proposito dei deleteri effetti della
riforma:
“(...)
nessuna società tra quante ho visitato, si sogna di poter narrare la
propria storia economico-sociale post 1926-27. fino ad allora
l'aneddotica cita anche i centesimi, dopo, silenzio assoluto.”6
Insomma, con questa
riforma epocale il calcio italiano iniziava ad assomigliare molto al
calcio dei nostri tempi, producendo una cesura tra il prima e il
dopo.
1Alessandro,
Bassi, Il football dei pionieri,
Bradipolibri Editore, Ivrea, 2012
2Antonio,
Papa - Guido, Panico, Storia sociale del calcio in Italia,
Il Mulino, Bologna, 1993
4Ibidem
5Antonio,
Papa - Guido, Panico Op. Cit.
6Antonio,
Ghirelli, Op. Cit.
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