Immediatamente
dopo la notizia dell'ultimatum, Di San Giuliano subito
telegrafò ad Avarna e Bollati incaricandoli di comunicare ai
ministri degli Esteri presso cui erano accreditati, che se
l'Austria-Ungheria avesse proceduto ad occupazioni territoriali senza
il consenso dell'Italia, avrebbe violato l'art. VII. In più,
aggiunse che in caso di guerra, trattandosi di azione aggressiva da
parte dell'Austria-Ungheria, l'Italia non aveva l'obbligo di
intervenire, e, comunque, un intervento italiano avrebbe potuto
trovare una giustificazione agli occhi dell'opinione pubblica, solo
se fosse stato possibile fornire a questa la certezza di un vantaggio
corrispondente ai rischi.1
Le
prime reazioni vennero da Berlino: il 25 Bollati riferì di aver
prospettato a Jagow quale potesse essere la qualità dei compensi, e
cioè la cessione del Trentino e la contemporanea cessione di Valona
a titolo di garanzia. Jagow "trovava perfettamente
giustificata la seconda domanda. Quanto alla prima, egli diceva che
naturalmente le difficoltà sarebbero state grandissime, ma che forse
momento non sarebbe stato mai più opportuno per tentarla"2
Bollati il 26 con telegramma fece sapere che Jagow, non solo
condivideva l'interpretazione italiana dell'art. VII, ma aveva dato
istruzioni a Tschirschky per discuterne, raccomandando, comunque, di
inoltrare le richieste direttamente a Vienna; Avarna, intanto,
confermava di aver avuto assicurazione da Tschirschky che questi si
stava adoperando per indurre il governo di Vienna ad una soluzione
pratica riguardo la questione dei compensi.3
Di San Giuliano, dal canto suo, non ritenne di dover seguire quanto
suggeritogli da Jagow, come scrisse a Bollati
"…non sono possibili trattative dirette fra
Italia ed Austria. Esse condurrebbero a una quasi certa rottura. E'
urgentissimo che tali trattative vengano iniziate per opera della
Germania. Unico compenso territoriale possibile per noi è la
cessione di una parte delle provincie italiane dell'Austria
corrispondente al suo ingrandimento territoriale altrove"4
Il
27 la situazione peggiorava. Di San Giuliano rompeva gli indugi e si
spingeva anche oltre il timore di una rottura; infatti scrisse ad
Avarna e a Bollati che un ingrandimento territoriale austriaco
avrebbe costituito una violazione del trattato e che l'Italia si
sarebbe potuta indurre ad allinearsi alla Russia e alle altre
Potenze. Di fronte alle tergiversazioni austriache Di San Giuliano
incominciava ad irritarsi, e così il 28 luglio inviò tre telegrammi
quasi contemporaneamente, coi quali intese stringere i tempi con gli
alleati. Nel primo dichiarava:
Non
vedo bene perché ci debba riuscire difficile di sostenere
contemporaneamente le due tesi del diritto al compenso e del non
obbligo a partecipare alla guerra. Mi pare che la seconda tesi serva
a dar forza alla prima, perché può porre condizioni meglio chi non
è obbligato che chi lo è…"5
Affermazione,
questa, importante perché si fondava sul principio – rafforzandolo
- per cui la partecipazione alla guerra, obbligatoria ai fini
difensivi, era del tutto indipendente dall'obbligo ai compensi quando
fosse stato alterato lo status quo.
Nel
secondo telegramma Di San Giuliano ripeteva che finché Berchtold non
avesse accettato l'interpretazione italiana e tedesca dell'art. VII,
di fatto non sarebbe esistita Triplice Alleanza nelle questioni
balcaniche, perché l'Italia avrebbe dovuto seguire una politica
conforme a quella di tutte quelle Potenze che al pari dell'Italia
avevano l'interesse ad impedire qualsiasi ingrandimento territoriale
austriaco; nel terzo telegramma, infine, veniva ancora ribadito che
la condotta austriaca escludeva per l'Italia il casus foederis.6
1
DDI, Serie IV, vol. XII, nn.° 468,488
2
DDI, Serie IV, vol. XII, n°524
3
DDI, Serie IV, vol. XII, nn°550,556
4
DDI, Serie IV, vol. XII, n°575
5
DDI, Serie IV, vol. XII, n°671
6
DDI, Serie IV, vol. XII, nn°672,673
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