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giovedì 5 novembre 2015

SPORT E GRANDE GUERRA

Cento anni fa tantissimi giovani di tutta Europa partivano per il fronte abbandonando la loro casa e donando sogni, speranze e giovinezza ad una follia che devastò per cinque interminabili anni il cuore del mondo.
Quando il 28 giugno 1914, a Sarajevo, lo studente bosniaco Gavrilo Princip assassinò l'erede al trono d'Austria Francesco Ferdinando, l'Europa viveva gli ultimi attimi di un lungo periodo di pace e progresso, dovuto in massima parte al complesso sistema di alleanze difensive che aveva cristallizzato lo scacchiere europeo, acuendo però sempre più diffidenze e malcontento che trovarono quindi una valvola di sfogo nell'attentato di Sarajevo. Quel giorno, infatti, si innescò il meccanismo perverso che avrebbe portato l'Europa prima, il mondo poi nella più tragica e sanguinosa guerra che si fosse mai vista prima.
Pochi giorni dopo quella tremenda giornata gli appassionati di football seguivano con interesse l'ultimo atto del campionato 1913/14. Domenica 5 luglio nella finale di andata, a Casale Monferrato, la locale squadra di calcio batteva 7-1 la Lazio e la domenica successiva le due squadre giocavano il match di ritorno, dopo che alla mattina furono ricevute in Campidoglio dal sindaco di Roma, Principe Colonna. Anche quella partita venne vinta dal Casale che conquistava così il suo primo – ed unico – campionato italiano, lasciando la Lazio ancora una volta con l'amaro in bocca, ad un passo dalla gloria come l'anno precedente, quella volta sconfitta in finale dalle “bianche casacche” della Pro Vercelli (7-0). In quegli anni la Lazio era sicuramente la squadra più forte del centro sud: come detto riuscì ad arrivare due volte alla finalissima contro le squadre del nord ed anche nel campionato 1914/15, quello che non vide mai la fine a seguito della mobilitazione generale, al momento della sospensione era ad un passo dall'approdare alla finalissima. Mancava, ancora, un'ultima partita nel girone, quella contro il Pisa ma la Lazio era prima in classifica con due punti di vantaggio sul Roman e, proprio, sul Pisa.
Tutto venne sospeso, tutto rimandato al termine della guerra che si sperava veloce ma che già si sospettava sarebbe stata lunga, ma non così tremendamente lunga.
Come in precedenza detto, se subito dopo l'attentato di Sarajevo tutte le diplomazie e le cancellerie d'Europa entrarono in fibrillazione, ancora gli sportivi italiani si godevano i loro svaghi, ma il calcio nostrano aveva incominciato a “fare i conti” con la guerra già nell'estate, quando il Torino di Vittorio Pozzo rientrando dalla tournée in Sudamerica a bordo del piroscafo “Duca degli Abruzzi” una mattina, al largo di Gibilterra, vennero svegliati dalle cannonate e dalla perquisizione di un incrociatore inglese. Così Vittorio Pozzo ricorda quei momenti:
(...) fummo svegliati da due cannonate e ci trovammo la via sbarrata da un incrociatore inglese che s’era messo di traverso sulla nostra rotta. Venne a bordo un picchetto armato, e per poco non pagai caro lo scherzo di essermi messo a parlare tedesco in presenza dell’ufficiale inglese che lo comandava: mi avevano preso per un riservista germanico e volevano portarmi via. All’arrivo a Genova, uno degli amici che ci aspettavano sul molo agitava, nella mano, una quantità di fogli verdi e gialli. Erano i richiami per mobilitazione, od esercitazione. Ce n’era per tutti, ci volevano da tutte le parti: 3° Alpini, 4°Bersaglieri, 5° Genio Minatori, 92° Fanteria. Impallidimmo. Quella guerra, sulla cui durata avevamo tanto scherzato, era lì, con le fauci aperte, a ghermirci.”
Era la guerra, che stava bussando alle porte del nostro Paese, anche se ci eravamo dichiarati neutrali già da oltre un mese. E sarà lungo il filo sempre più sottile della neutralità che l'Italia giocherà la sua “battaglia diplomatica” finalizzata ad ottenere pacificamente – attraverso l'interprswtazione dell'art. VII del Trattato della Triplice Alleanza – quei territori che tre guerre d'Indipendenza non erano riuscite a portare: Trentino e Trieste divennero in quei mesi da un lato le bandiere di chi voleva la guerra e dall'altro l'impegno di chi quella guerra cercava di evitarla o quanto meno di spostarla più in là nel tempo.
 
Questa fotografia, pubblicata da Lo Sport Illustrato, ritrae un incontro di football giocato su un campo del Belgio durante i primi mesi di invasione tedesca, nell'autunno del 1914. Il pubblico è formato in massima parte da ufficiali e soldati tedeschi, così come anche i giocatori sono soldati che si distraggono durante il loro tempo libero. Lo sport – il calcio in particolare – venne utilizzato dagli ufficiali per mantenere in esercizio i soldati e per mantenere alto il loro spirito durante i lunghi mesi di attesa nelle trincee. Come dimostrato dalla più recente storiografia, in special modo dagli ottimi lavori di Giorgio Seccia e Lauro Rossi, in molti campi di prigionia tedeschi la pratica sportiva venne non solo autorizzata ma anzi incentivata. Ma il calcio non serviva soltanto come strumento di distrazione o di mantenimento fisico. Noto ormai a tutti ciò che accadde sul fronte nella notte di Natale del 1914, quando dalle trincee opposte prima si alzarono canti natalizi e poi venne deciso di far tacere almeno per un giorno le armi, sostituite dalla disputa di una partita di calcio tra soldati nemici.

 
In Italia durante i mesi di neutralità – quindi dall'agosto 1914 al maggio 1915 – il “mondo del football” si schierò sempre più apertamente contro l'Austria-Ungheria e a favore delle Terre irredente. Numerosissime furono le partite organizzate dalle società di calcio per raccogliere fondi da destinare alle popolazioni martoriate del Belgio e di Trieste, una di queste merita senz'altro di essere menzionata perché coinvolse direttamente la Nazionale, nelle prime giornate del gennaio 1915, partita organizzata da La Gazzetta dello Sport con il patrocinio dell'A.S.S.I. All'Arena Civica di Milano il 1° gennaio la nazionale italiana giocò contro una mista composta da giocatori sotto le armi di Francia e Belgio, indossando una divisa bianca fregiata dall'alabarda di Trieste.
Un altro esempio è descritto da quest'altra fotografia scattata sempre all'Arena Civica di Milano nell'aprile del 1915 e ritrae Fossati capitano dell'Internazionale, avv. Mauro della Federazione ora sottotenente, ing. Mauro vice-presidente della Federazione, avv. Pedroni arbitro dell'incontro Internazionale-Milan, Franco Scarioni de La Gazzetta dello Sport ora sotto le armi col grado di tenente e il belga Van Hege capitano del Milan. Ma qui, a differenza del tempo in cui venne scattata la fotografia precedente, siamo già ad un passo dall'intervento italiano. Il Patto di Londra, dopo estenuanti trattative, è stato stipulato: la diplomazia italiana, il governo italiano sanno che entro breve dovranno entrare in guerra a fianco di Russia, Francia e Inghilterra, contro quell'Austria-Ungheria che era stata dal 1882 l'alleata più ingombrante nella Triplice Alleanza, ma anche l'antica nemica dell'Unità nazionale.
In Italia, così come in tutta Europa, per tutta la durata della guerra moltissimi furono i calciatori che si arruolarono e tantissimi di loro trovarono la morte al fronte, alcuni di essi molto famosi per l'epoca. Si può dire che tutte le società dell'epoca abbiano pagato un prezzo elevatissimo in vite umane. Per ricordarne doverosamente soltanto alcuni, Giuseppe Caimi, medaglia d'oro al valor militare, che morì nel 1917 sul Grappa; Virgilio Fossati, capitano dell'Internazionale e della Nazionale, uno dei migliori giocatori del periodo prebellico; Luigi Ferraris e James Spensley, entrambi del Genoa, al primo verrà intitolato lo stadio di Genova, mentre il secondo, oltre ad essere stato il primo portiere della squadra genovese, ebbe anche il merito di introdurre il gioco del calcio nella società del Genoa, nata nel 1893 come società di atletica e cricket. La Lazio fu particolarmente colpita: perse infatti, tra gli altri, Orazio Gaggiotti, Rodolfo De Mori, Alberto Canalini, Valerio Mengarini.
Ormai i tempi erano maturi: il 24 maggio 1915 l'Italia dichiarava guerra all'Austria-Ungheria e di calcio se ne parlò e se ne giocò sempre meno. Il campionato, come detto, venne sospeso e soltanto al termine del conflitto il titolo di Campione d'Italia venne assegnato al Genoa, non senza numerose polemiche. Ma ormai si era in un tempo nuovo, diverso. Il calcio era cambiato, l'Italia era mutata e con essa erano cambiati gli italiani, soprattutto i reduci, come meravigliosamente e drammaticamente ha raccontato Rigoni Stern nel commovente romanzo Le stagioni di Giacomo.
Il mondo tentava di rialzarsi, una società nuova si rimetteva in marcia, non necessariamente migliore.


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