Sempre
il 28 luglio l'Austria-Ungheria dichiarava guerra alla Serbia.
La
Stampa nell'edizione del giorno
seguente pubblicò un'intervista ad un alto diplomatico della
Triplice Alleanza il quale, in buona sostanza, si esprimeva
senz'altro per la pace, ma non una pace a tutti i costi, bensì una
“pace condizionata alla protezione dei suoi interessi e
più di tutto degli interessi dell'alleata Austria, i quali in fondo
costituiscono la base della dignità, dell'onore, della stabilità
della Triplice alleanza.”1
Immediata
fu la reazione del governo russo che, il giorno seguente, ordinò la
mobilitazione delle forze armate estesa all'intero confine
occidentale - e non solo alle frontiere austro-ungariche - per
prevenire un eventuale attacco da parte della Germania. Il piccolo
fiocco di neve aveva iniziato a rotolare giù a valle: il governo
tedesco interpretò questa decisione come un atto d'ostilità nei
suoi confronti e il 31 inviò un ultimatum alla Russia, intimandole
l'immediata sospensione dei preparativi bellici. L'ultimatum cadde
nel vuoto e di conseguenza il giorno dopo la Germania dichiarò
guerra al governo russo; lo stesso 1° agosto la Francia, legata alla
Russia da un trattato militare, mobilitò le sue forze armate. Ancora
la Germania rispose con un ultimatum e con la successiva
dichiarazione di guerra del 3 agosto.
La
guerra nel cuore d'Europa non era più una minaccia, ma drammatica
realtà.
Nei
telegrammi mandati ad Avarna e Bollati il 29 e il 30, Di San Giuliano
esigeva da Berchtold che dichiarasse esplicitamente se riteneva o
meno in vigore l'art.VII, perché in caso di risposta negativa
l'Italia sarebbe stata costretta a fare "una politica non
favorevole all'Austria"2
Concludeva il 31 ribadendo che in ogni caso l'Italia avrebbe dovuto
impedire ogni ingrandimento territoriale dell'Austria.3
Berchtold
venne autorizzato dal consiglio dei ministri comuni di
Austria-Ungheria del 31 luglio, ad aprire all'Italia la prospettiva
di un compenso in un unico caso, cioè nell'ipotesi che l'Austria
avesse proceduto ad una occupazione durevole di territorio serbo,
ribadendo, con altre parole, il concetto già più volte espresso per
il quale non riteneva sussistere l'art. VII per occupazioni
temporanee di territorio serbo; inoltre nel caso le circostanze lo
avessero reso necessario e sempre che l'Italia avesse adempiuto ai
suoi obblighi di alleata, si sarebbe potuto discutere la cessione di
Valona all'Italia. Subito Berchtold affrontò il discorso con Avarna,
raggiungendo un accordo. Ma non c'era alcuna differenza sostanziale
con le promesse del 28, il Trentino - al quale mirava Di San Giuliano
- era sempre escluso e per questo anche questa offerta venne
rifiutata dal governo italiano.4
Sempre
il 31 luglio si riunì il Consiglio dei Ministri italiano nel quale
si deliberò all'unanimità la neutralità italiana di fronte alla
guerra. A questo passo Salandra e Di San Giuliano giunsero attraverso
l'interpretazione dell'art. IV della Triplice il quale diceva che nel
caso una grande potenza non firmataria avesse minacciato la sicurezza
degli Stati di una delle altre parti contraenti e la parte minacciata
si fosse vista costretta a fare la guerra, le altre due parti si
sarebbero obbligate, verso il loro alleato, ad una benevola
neutralità. Se era vero che la Serbia non poteva di certo essere
definita "grande potenza" e pertanto teolricamente il caso
di specie non rientrava in detto artivcolo, lo era però senza dubbio
la Russia che con tutta probabilità si sarebbe schierata al suo
fianco, in caso di attacco.
La
sera stessa del 31 Di San Giuliano metteva al corrente Flotow della
decisione italiana, dicendo che l'azione austriaca contro la Serbia
era aggressiva e che quindi non ricorreva il casus foederis,
aggiungendo che l'Italia non era stata precedentemente informata e
che perciò non si poteva chiederle di prender parte ad una guerra
contraria agli interessi italiani.
1
Cfr. La Stampa del 29
luglio 2014, n. 207
2
DDI, Serie IV, vol. XII, nn°722,754
3
DDI, Serie IV, vol. XII, nn°778,797
4
LUIGI, ALBERTINI, Op. cit.,vol. III, pagg.282-285
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